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Addio a Maranghi, il banchiere del rigore etico

di Franco Locatelli

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18 luglio 2007

Con la scomparsa a 70 anni, dopo lunga malattia, di Vincenzo Maranghi non se ne va solo il più diretto erede di Enrico Cuccia in Mediobanca ma anche l'alfiere di un certo modo di fare banca e di fare il banchiere. Uno stile, quello di Maranghi, che venne travolto dai tempi molto prima della sua discussa defenestrazione da Mediobanca ma che resterà nella memoria della comunità finanziaria e della parte migliore del Paese come una grande lezione. Etica e professionale. Dal suo insuperabile maestro Maranghi aveva ereditato non tanto lo scettro della più prestigiosa banca d'affari italiana ma il dna di chi aveva diretto qualcosa di unico e di irripetibile nel panorama finanziario nazionale e cioè la vera cabina di regia del nostro capitalismo. Quel dna era fatto essenzialmente di eccellenza professionale, indipendenza politica, totale riservatezza e assoluta moralità. Di Maranghi si è spesso favoleggiato che avesse un carattere difficile ma anche i suoi critici più ostinati hanno finito per ammettere che in realtà più che un cattivo carattere aveva soprattutto carattere. E totale dedizione alla banca e alle regole dell'onestà.
Come Enrico Cuccia anche Vincenzo Maranghi, fiorentino doc trapiantato a Milano che prima di entrare in banca cominciò la sua carriera facendo il giornalista a «Il Sole» prima della fusione con «24 Ore», non sapeva nemmeno che cosa fosse l'interesse personale. Le stock option, i bonus e le aspettative retributive, che oggi sono in cima ai desideri e alle ambizioni di tanti manager, non sono mai entrate nel suo orizzonte e nella sua agenda che avevano come bussola unica e assoluta l'eccellenza di Mediobanca.
Oggi questo modo di intendere la banca e la professione del banchiere sembrano demodé e sembrano l'espressione di un tempo lontano. In realtà erano la manifestazione di una esperienza inimitabile e di una sorta di religione laica fortemente animata da un grande fervore professionale e da una intensa passione civile.
La maniera stessa in cui Maranghi lasciò Mediobanca, dopo insuperabili contrasti sul futuro delle Generali con i suoi azionisti bancari e con l'allora Governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, la dice lunga sullo stile dell'uomo. Non erano le spettanze personali che gli competevano a preoccuparlo e nemmeno la perdita di un posto di potere e di prestigio indubbi ma solo l'indipendenza dell'istituto e il futuro dei quadri migliori che aveva allevato con passione e severità, Renato Pagliaro e Alberto Nagel in testa.
Ma anche il fatto che in tanti anni in Mediobanca non sia mai scoppiato uno scandalo e che mai nessuno abbia potuto nemmeno lontanamente dubitare dell'integrità assoluta dei suoi vertici e dei suoi quadri sono una realtà che fa riflettere e che si deve certamente a Cuccia ma anche al suo allievo migliore.
Come per Cuccia anche per Vincenzo Maranghi Mediobanca era tutto ma era soprattutto la vita. Non c'era orario o vacanze che tenessero: il piacere di stare in banca, di lavorare e di conversare sulle grandi operazioni di cui l'istituto era protagonista non conosceva limiti.
La fine di Maraghi, che oggi tutti piangono, è probabilmente cominciata quando lasciò Piazzetta Cuccia nell'aprile del 2003 dopo il durissimo scontro che portò alla sua liquidazione. O forse, come per Cuccia, era cominciata ancora prima e cioè quando, pur essendo ancora in vita il suo maestro e grande sacerdote della finanza italiana, i tempi cominciavano a cambiare. Cambiava l'Italia e il modello di Mediobanca come stanza di compensazione del capitalismo si avviava inesorabilmente al tramonto. Maranghi aveva sperato di poter perpetuare la formula magica del successo di Mediobanca ma contro le trasformazioni della storia e dell'economia non bastano la generosità e l'idealità dei singoli.
Di eccellenti banchieri se ne possono sempre trovare e se ne trovano anche oggi; la riservatezza fino al limite dell'ossessione della vecchia guardia di Mediobanca non appartiene invece alla "civiltà" dell'immagine e l'indipendenza politica e l'intransigente fiducia nelle regole dell'onestà sono qualità sempre più rare. Ma sono anche la vera forza della lezione di Maranghi. Quella per la quale gli sarebbe piaciuto essere ricordato e quella che durerà ben oltre la sua vita.

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