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Risparmio tradito dai fondi che rendono meno di Bot e Cct

di Antonella Olivieri

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7 agosto 2007

Il gioco della scimmia consiste in questo: la scimmia sceglie a caso i titoli su cui puntare, il gestore li sceglie seguendo logiche d'investimento. Ma spesso e volentieri è la scimmia a battere il gestore. Ebbene il gestore medio italiano negli ultimi sette anni ha sempre fatto il gestore medio e mai la scimmia. Dal 2000, da quando è stato introdotto il confronto con il benchmark (il "sostituto" della scimmia: indici, piuttosto che panieri di azioni o titoli di Stato), i fondi italiani mediamente hanno sempre fatto peggio. Lo scorso anno, secondo l'indagine curata dall'ufficio studi di Mediobanca, solo il 14% dei fondi ha battuto i parametri di riferimento. Nessuno nel comparto dei fondi di liquidità, che investono in BoT e altri strumenti monetari a breve, ma che per far questo caricano commissioni.

Il risultato è che in sette anni chi ha investito in fondi ha rinunciato a oltre l'11% di rendimento rispetto a chi ha puntato direttamente sui benchmark. E chi, in particolare, ha optato per i prodotti azionari, si è ritrovato addirittura con il 19% in meno. Passi se il gestore si spinge fino dall'altra parte dell'emisfero e non si sente a suo agio come a casa. Ma forse sono eccessivi 4,2 punti in meno degli indici per i fondi "Pacifico", non quelli che investono nelle Fiji, ma più banalmente in Giappone o nel Far East. E che dire dei fondi che, con meno pretese, restano nell'orticello di Piazza Affari? Anche qui meglio puntare sull'indice: i fondi azionari Italia lo scorso anno sono rimasti sotto di 2 punti. Chi varca le Alpi migliora il bilancio se non aggiunge la complicazione di cambiare valuta (-1,5 punti i fondi dell'area euro), ma lo peggiora se invece in portafoglio ci mette anche un po' di azioni in franchi o sterline (-2,6 punti i fondi Europa). Non parliamo poi di Wall Street: lo scostamento, negativo, dei fondi America arriva a 3 punti rotondi.

Nella media lo scorso anno i fondi comuni hanno fatto peggio dei benchmark di 1,3 punti, misurando le performance con il criterio del total return (che tiene conto anche dei dividendi) al quale si sono ormai adeguate tutte le sgr, come richiesto dalla Consob. A tirar su la media hanno contribuito i bilanciati che sono andati a convergere sugli obbligazionari, restando solo un punto al di sotto dei parametri che si proponevano di battere. Ma a pesare sull'altro piatto della bilancia, ci sono gli azionari, le cui performance sono peggiorate rispetto all'anno precedente: -2,3 punti nel 2005, -2,6 punti nel 2006.

Nell'ultimo triennio, a parte i saliscendi tra le diverse categorie di prodotti, il risultato generale non è variato di molto. Se, appunto, lo scorso anno la minor performance è stata di 1,3 punti, nei due anni precedenti si era attestata a 1,4 punti. Come dire che più di tanto i gestori non riescono a fare. Non amano il rischio, a guardare la composizione dei portafogli, e forse questo li penalizza verso i colleghi più avventurosi. Investono soprattutto in titoli di Stato: quelli di casa, BoT, BTp e CcT, rappresentano più di un terzo del patrimonio (35,3%), ma se si contano anche Bund, Oat e gli altri titoli del Tesoro, emessi per lo più da Paesi dell'area euro, si arriva addirittura al 56,7%. Nelle azioni è investito solo il 30% del patrimonio, in quelle italiane in particolare solo il 7%.

Anche sulle valute non si azzardano più di tanto: i titoli denominati in euro arrivano al 79% degli impieghi del sistema, per i fondi obbligazionari la percentuale sale addirittura al 90%. Si osa un po' di più negli azionari, dove la percentuale dei titoli in euro crolla al 46%. Del resto, si possono trascurare le Borse di Londra, Wall Street o Tokio? Evidentemente no, tant'è che nei prodotti del comparto il 20,5% degli investimenti parla americano, il 10,4% giapponese e l'8,2% l'inglese della City.
Rispetto al 2005 la quota degli investimenti in euro è salita di 2,8 punti, ma non tanto per un cambio di strategia, quanto piuttosto per l'apprezzamento del cambio che ha giustificato la scelta.

Sarà la politica prudente, ma a pesare un po' sulle performance ci sono anche i costi di negoziazione. Non è dato sapere quanto paghino i fondi sui titoli obbligazionari. Ma sugli azionari non si può dire ottengano grandi sconti: la media per le compravendite in Borsa è dell'1,5 per mille. Normalmente, in Italia, i grossi investitori istituzionali non pagano più dell'1 per mille in Italia, ma è da considerare che ad alzare i costi contribuisce il trading sui titoli esteri, dove si finisce, bene o male, a pagare la doppia intermediazione. Nel complesso sul 30% del patrimonio rappresentato da azioni i fondi hanno pagato, nel 2006, 382 milioni di oneri di compravendita: solo il 17% è andato alle banche dello stesso gruppo del fondo, il 56,6% a intermediari esteri. La quota sale però al 57% per i fondi di fondi e al top del 72% per i fondi flessibili. Quando però il fondo si fa finanziare l'investimento, meglio rivolgersi alla banca di casa: la metà degli interessi passivi viene pagata a loro.

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