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I derivati dei Comuni, un identikit che cambia

di Nicola Borzi

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Sabato 27 Ottobre 2007

La mappa di Comuni e Regioni clienti di UniCredit a fine 2003
L'elenco originale dei clienti UniCredit
L'altra lista di UniCredit

Il "guru di Omaha" Warren Buffett, il 4 marzo 2003, li definì «armi di distruzione di massa». L'ex ministro dell'Economia Domenico Siniscalco, parlandone il 24 marzo 2004 in Parlamento a proposito degli enti locali, disse che «a volte assomigliano a droghe pesanti». Alessandro Profumo, amministratore delegato di UniCredit Group, il 17 ottobre ha detto invece che sono «strumenti che servono per chiudere i rischi finanziari, utili e usati da tutti». Il ministro Tommaso Padoa-Schioppa il 24 ottobre ha affermato che i derivati non destano preoccupazioni per i conti di Comuni, Province e Regioni. Ma quantificare i contratti venduti dalle banche per la copertura dei rischi finanziari degli enti locali – copertura reale solo se le controparti sono davvero capaci di comprendere strutture e costi dei contratti – è difficile.

I dati del Governo
Secondo il Tesoro, dal 2002 e al primo semestre 2007 sono stati circa 900 i derivati firmati da 525 enti locali (459 Comuni, 45 Province, 17 Regioni e quattro Comunità montane). Ben 151 sono stati stipulati tra gennaio e il 30 giugno scorso. A fine agosto, secondo Banca d'Italia, il mark to market (il valore di mercato alla data della rilevazione) dei derivati in tasca agli enti locali era negativo per 1,055 miliardi. Due terzi di questo valore (che non si traduce in una perdita immediata) sono in capo ai Comuni, un quarto alle Regioni e il resto alle Province.

Regole e trasparenza
L'equilibrio tra innovazione finanziaria, autonomie locali e controllo centrale sul debito è stato un difficile obiettivo per il legislatore. Fu la Finanziaria 2002 ad aprire agli enti locali la sottoscrizione di derivati. Il ministero dell'Economia a fine 2003 ha disciplinato le operazioni consentite. Il 27 maggio 2004, all'epoca dell'indagine parlamentare sulla finanza locale, furono date ulteriori regole ai Comuni. Infine, il collegato alla Finanziaria del 2006 ha fatto scattare una nuova, importante regola: tutti i derivati stipulati dal 2007 dagli enti locali e dalla pubblica amministrazione, per essere validi, devono venire segnalati preventivamente al Tesoro. Secondo alcuni operatori, però, tutto ciò non basta: gli enti locali non hanno competenze e capacità per evitare sgradite sorprese, dunque serve un servizio centrale in grado di "smontare" preventivamente i contratti e definire un prezzo equo.

Business e opportunità
Per almeno un quinquennio, a partire dal 2000, i contratti derivati hanno consentito alle banche di riguadagnare quei margini che le tradizionali gestioni di tesoreria delle pubbliche amministrazioni non offrivano più in un periodo di calo dei tassi. Proprio gli swap per la rinegoziazione dei tassi d'interesse hanno aperto agli operatori privati la «riserva di caccia» costituita dal debito degli enti locali. Un debito sempre più difficile da gestire per amministratori pubblici alle prese con la progressiva stretta ai trasferimenti centrali e con i maggiori vincoli ai bilanci dovuti al Patto di stabilità. La proposta delle banche più spregiudicate suonava come la classica quadratura del cerchio alle orecchie di sindaci e assessori: con gli Interest rate swap appariva possibile ristrutturare il debito, prolungarne la scadenza (oltre la fine del proprio mandato), abbassarne i tassi e, spesso, ottenere dalle banche un'entrata di cassa iniziale.

Droghe pesanti, appunto, collocate con delibere standard già pronte da copiare su carta intestata dei Comuni, alle quali venivano allegati elenchi di enti locali che avevano già fatto ricorso ai derivati, come testimonial della bontà del prodotto, e una liberatoria con la quale amministratori e tecnici locali si autocertificavano "operatori finanziari esperti", in grado di comprendere appieno rischi, costi impliciti e opportunità del contratto che si accingevano a firmare. Competenze che, nella stragrande parte dei casi, erano solo sulla carta, mancando gli strumenti tecnici necessari a "smontare" e dare un prezzo equo ai derivati.

I principali operatori
Non esistono ricerche sulle quote dei singoli operatori nel mercato dei derivati Otc venduti alla pubblica amministrazione, così come la loro evoluzione nel tempo. I dati al 31 agosto scorso sono nelle mani di Banca d'Italia che li ha presentati solo in forma aggregata. Alti dirigenti di banche internazionali, che hanno parlato sotto vincolo di anominato, hanno però individuato in una ristretta pattuglia di banche italiane ed estere i leader di questo segmento della finanza corporate. Le quote principali del mercato dei derivati agli enti locali, secondo queste fonti, fino al 2006 erano in mano a banche italiane, UniCredit e Dexia Crediop su tutte, ed estere, tra cui Merrill Lynch, Ubs, Deutsche Bank, Nomura e Barclays.

L'indagine del Sole-24 Ore
Per ottenere la fotografia del mercato, «Il Sole-24 Ore» ha inviato un questionario a 34 banche italiane ed estere. Dopo le inchieste dei giorni scorsi condotte sui giornali e dalla trasmissione tv «Report», sono fioccati i "no comment". Alcuni istituti, però, hanno dimostrato maggiore trasparenza di altri.
Mps, ad esempio, ha reso noto di aver attualmente attivi un centinaio di contratti. Citigroup è impegnata nella maxiristrutturazione del debito sanitario della regione Lazio. Al 31 agosto il gruppo Lehman Brothers aveva derivati con quattro tra Regioni o società controllate da enti pubblici il cui mark to market è positivo per le controparti.

Natixis nel 2007 ha realizzato un'unica operazione relativa al primo bond del programma Emtn della Cassa del Trentino. Credem ha in corso un solo contratto del nozionale di 13.818 euro a favore della controparte. Il Banco Popolare, che nel 2003 aveva otto contratti con cinque enti locali e cinque con tre società pubbliche, oggi ha nove contratti con otto enti locali e 16 con nove partecipate pubbliche, per un mark to market complessivo a fine agosto di 2,1 milioni a favore dei clienti.
UniCredit Banca d'Impresa a fine agosto aveva invece 295 derivati collocati a 216 fra Comuni, Province e Regioni, con un mark to market totale di 98 milioni a favore della banca. La quota di mercato di UniCredit resta forte ma è molto calata dal 2003 quando, come testimonia anche la tabella a fianco, contava 317 contratti con enti pubblici per un nozionale di 7,47 miliardi, oltre a 34 contratti con aziende pubbliche per altri 387 milioni di nozionale.

Nuove strategie
Ora però la situazione sta cambiando: alcuni operatori, come UniCredit Banca d'Impresa, hanno annunciato una sostanziale virata nella strategia commerciale per il settore. Altri si sono trovati a dover fronteggiare la crisi della finanza strutturata, innescata dalla bolla dei mutui subprime Usa, e le ricadute del caso Italease. L'effetto su cartolarizzazioni e bond, privati e pubblici, si farà sentire anche qui.



I GRANDI CLIENTI DI UNICREDIT


Gabriele Albertini

A fine 2003 la ragioneria di Palazzo Marino aveva acceso con UniCredit tre contratti per un valore nozionale complessivo superiore a 902 milioni di euro e un mark to market positivo per la banca per oltre 86 milioni di euro


Sergio Chiamparino

Era di 309 milioni di euro il nozionale dei sei contratti derivati che a fine 2003 legavano il Comune di Torino con UniCredit, per un mark to market a favore della banca di 14,75 milioni


Francesco Storace

Alla fine del 2003 il bilancio del Lazio presentava sei contratti derivati con UniCredit per un valore nozionale complessivo di quasi 357 milioni di euro e un saldo del mark to market a favore della banca per 4,92 milioni

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