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Bush e la Fed contro la recessione

di Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi

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12 Gennaio 2008
GRAFICI
I numeri dei Tredici
Economia e politica economica Usa

Indicatori reali
Recessione, non-recessione. Lo spoglio della margherita congiunturale è diventato elettrizzante e ansiogeno. L'economia americana lancia segnali contraddittori: il settore privato ha cancellato posti di lavoro in dicembre per la prima volta dal 2003 e il settore manifatturiero (stando al Pmi) è già in zona in zona retromarcia. Ma il terziario ancora tiene e i consumatori spendono più di quel che guadagnano (il tasso di risparmio è tornato negativo). I prezzi delle case scendono e lo stock di invenduto garantisce nuovi sconti. Ma l'indice di capacità di acquistare un'abitazione è rimbalzato su livelli molto elevati, anche grazie alla riduzione dei tassi sui mutui tirati giù dai rendimenti sui titoli di Stato. Fed e Amministrazione Bush, con tagli di tassi e tasse, come nel 2001 cercheranno di spostare l'ago della bilancia lontano dall'esito più infausto (che per qualcuno è già realtà); eppoi c'è la svalutazione del dollaro che spinge l'export.
Se gli Usa si prendono una polmonite, l'Europa non può evitare almeno un forte raffreddamento. Finora, gli indicatori congiunturali (produzione, ordini, occupazione) puntano ancora all'espansione, soprattutto in Germania e con più incertezza in Francia e Italia. Anche gli indici Pmi a dicembre, nei servizi e nel manifatturiero, dimostrano una discreta tenuta, seppure a un passo decisamente più lento di quello a cui marciavano entrambi i settori fino a primavera inoltrata; ma c'è stato qualche miglioramento rispetto a un paio di mesi fa. E questo raffreddamento aiuterà a rintuzzare le paure inflazionistiche.
D'altronde, a livello globale la crescita rimane sostenuta, grazie alla continua vivacità dei Bric. Brasile, Russia, India e Cina crescono, seppure con ritmi molto differenziati e prospettive diverse (meno brillanti quelle russe, ma gli incassi da petrolio aiutano). La stessa ritrovata forza delle materie prime tra fine dicembre e inizio 2008, dopo le cadute di novembre, sono il sintomo della domanda dei Paesi emergenti. Ciò aiuterà l'export europeo e americano.

Inflazione
L'accelerazione dei prezzi al consumo provoca grida di dolore. Non immotivate: l'erosione del potere d'acquisto è genuina e, sebbene in sé sia molto minore di quel che avveniva in passato, morde di più perché incide su redditi che crescono poco. Ma l'allarme rischia di provocare reazioni controproducenti: una rincorsa delle retribuzioni sganciata dai guadagni di produttività non porta a migliorare i bilanci delle famiglie. Anzi, l'opposto. Se avviene in un singolo Paese dell'Unione monetaria, ne penalizza competitività e occupazione. Se si realizza in tutta l'Eurozona spinge la Bce ad alzare i tassi e bloccare l'economia per riportare prezzi e salari sotto controllo. Per contrastare l'inflazione importata l'unica arma è la concorrenza che riduce posizioni di rendita e inefficienze e migliora la produttività del sistema.

Tassi d'interesse, valute, moneta
Non è solo la Fed a preoccuparsi di far scendere il costo del danaro. Non vi è dubbio che i mercati finanziari americani sono (troppo) flessibili e (troppo) innovativi, ma queste stesse caratteristiche di "ultrasensibilità" tornano utili quando si tratta di far incontrare domanda e offerta di fondi. Quale banchiere inamidato non guarderebbe con diffidenza a prestare i soldi per mutui immobiliari, in una situazione in cui i prezzi delle case scendono, i pignoramenti di case salgono e il mercato delle ipoteche è stato squassato da una crisi che dai subprime ha toccato anche segmenti che si pensava immuni? Ma fortunatamente i banchieri americani, o quanto meno i prestatori di mutui, non sono inamidati, e sono lesti ad abbassare il prezzo quando la domanda cala, come si conviene a un mercato ben temperato. Così, nella prima settimana di gennaio i tassi per le ipoteche a 30 anni sono scesi al 5,73%, più bassi rispetto ai livelli pre-crisi e i più bassi da più di due anni. La risposta del "Bancomat" immobiliare americano – l'estrazione del valore delle case attraverso rifinanziamenti dei mutui – è stata rapida: le domande sono aumentate del 50% e viaggiano – e non da oggi – su ritmi superiori ai livelli della prima parte del 2007.
In effetti, questa risposta anti-ciclica dei tassi, se è specialmente evidente nel caso dei titoli pubblici (dove campeggia il flight to quality: i T-Bond a due anni rendono il 2,6%), non latita neanche nei comparti privati: i rendimenti delle obbligazioni Aaa sono scesi e quelli delle Baa non sono saliti (sempre rispetto ai livelli pre-crisi). Il solo settore in difficoltà rimane – a parte la paralisi di alcuni mercati secondari legati ai famigerati Abcp e Cdo – il mercato interbancario. La Fed si è tuttavia spremuta le meningi e ha creato alcuni strumenti nuovi – la Taf, o Term Auction Facility – per far arrivare liquidità direttamente alle banche superando l'"effetto stigma" legato alla "vergogna" di rifornirsi di liquidità usando lo sportello dello sconto. In questo campo la risposta delle Banche centrali è stata rapida e massiccia; nel caso della Bce, addirittura senza precedenti per le quantità (centinaia di miliardi di euro) messe sul piatto dell'interbancario.
Là dove divergono gli approcci di Fed e Bce è nella manovra dei tassi. La Fed allenta, la Bce no: le minoranze nel consiglio Fed sono espansive, nel consiglio Bce sono restrittive. Ma è vero che l'economia americana corre più rischi di quella europea. Tuttavia, la posizione della Bce («quel che vogliamo è evitare il travaso dell'inflazione da energia e alimentari verso l'inflazione tout court») è troppo tradizionale. Questi travasi si evitano lasciando ai mercati le decisioni su prezzi e salari; se i mercati del lavoro e dei beni sono liberi da rigidità, le forze strutturali che spingono alla disinflazione in giro per il mondo avranno modo di piegare le tendenze inflazionistiche; se le rigidità continuano, l'aumento dei tassi minacciato dal grilletto della Bce è solo un inutile e dannoso irritante.
In campo valutario, il dollaro è di nuovo nel mirino dei mercati, in attesa che i tassi guida Usa scendano finalmente sotto quelli europei. Ma il differenziale dei tassi non è la sola variabile esplicativa né la principale (altrimenti non si spiegherebbe la debolezza della sterlina, che ha tassi guida al 5,50%); anche il tasso di crescita dell'economia quest'anno in Usa dovrebbe andare sotto quello dell'eurozona. Se a questo si aggiunge il fattore strutturale della diversificazione in corso dei portafogli valutari pubblici e privati, riesce difficile pensare che al dollaro non possano essere riservati altri scivoloni.


IN SINTESI

LA SANTABARBARA USA
L'economia americana è più resistente di quanto si creda, ma Fed e Casa Bianca non vogliono correre rischi. Se i prezzi delle case continuano a scendere sarà difficile evitare una recessione, ma le munizioni ci sono: la politica monetaria e le manovre di bilancio la allevieranno.
ORO SU, INFLAZIONE BASSA
Le pazzie del mercato dell'oro (che ha toccato un nuovo record ieri) fanno parte della generale effervescenza delle materie prime (dal 2000 l'oro è cresciuto meno del petrolio) ma non segnalano timori di inflazione. Altri più affidabili indicatori sulle attese inflazionistiche indicano continua moderazione negli anni a venire.
LE BORSE NON VEDONO CRISI
L'indice mondiale delle Borse (in valute locali) è al livello di giugno (pre-crisi dei mutui) e sotto dolo del 5% dai massimi storici. Anche se con una ricomposizione tra Paesi emergenti (Borse in salita) e Usa ed Europa (in discesa). Sul campo, comunque, non ci sono segni di scoraggiamento tali da trasformare il ralletamento in recessione.
DOLLARO SOTTO TIRO
La determinazione della Fed nel supportare l'economia Usa rende il dollaro vulnerabile. La Bce ha combattuto la crisi di liquidità con iniezioni di fondi piuttosto che con i tassi, perché ritiene che il livello del costo del denaro non sia di ostacolo alla crescita.

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