«Posso controllare il movimento dei corpi celesti ma non la follia della gente». La citazione è del grande scienziato e filosofo Isaac Newton, padre della fisica moderna e del razionalismo. E la rassegnazione con la quale il grande uomo di scienza pronunciò quelle parole non era in realtà indirizzata alla gente ma alla follia dei mercati finanziari e della Borsa, che lo avevano trascinato, quasi inconsapevolmente, a perdere in un sol colpo 20mila sterline. La conversazione con il professor Guido Rossi, ex presidente della Consob, della Montedison e della Telecom, avvocato delle grandi operazioni bancarie e finanziarie degli ultimi anni, autore del libro Il mercato d'azzardo, edito da Adelphi, inizia proprio con la citazione di Isaac Newton.
Il professore prima di parlare della voracità dei mercati finanziari, della corporate governance, del medioevo prossimo venturo e delle possibili cure a una prognosi certamente riservata, spulcia un minuscolo taccuino e tira fuori la citazione di Newton. «Lei mi chiede perché ho chiamato questo libro il mercato d'azzardo? Potevo chiamarlo con Newton il mercato della follia. In verità la definizione l'ho mutuata da Keynes e la trovo di grande attualità perché a voler ben guardare tutta la gestione del risparmio è diventata un gioco d'azzardo. Le ultime vicende relative ai subprime dimostrano che non è più un mercato degli investitori ma un mercato della liquidità. Un mercato dove la liquidità si sposta dove vuole e nessuno è in grado di governarla. O se vuole un mercato fuori controllo governato dagli istituti finanziari». Qualcuno le potrebbe replicare: è il mercato, bellezza e tu non ci puoi fare niente. «Già, peccato che questo mercato, lasciato libero di muoversi senza controlli, abbia creato anche di recente guasti incalcolabili e una crisi finanziaria da cui nessuno sa come uscire».
Proviamo a fare un passo indietro. Lei nel suo ultimo libro avanza una tesi molto impegnativa: il mercato finanziario divora la politica. Ci può spiegare il senso di questa tesi che si ritrova in più parti del suo libro?
L'idea che mi sono fatto è che la politica diventi un fatto residuale e impotente a intervenire sui processi economici e finanziari, derogando così alla sua missione. Sono proprio follie come l'esportazione della democrazia a confermare questa tesi. Sarò ancora più esplicito: a mio parere come nel medioevo stiamo tornando al principio della lex mercatoria, quando le regole le facevano i mercanti, quando la logica dello scambio e dei commerci superava i confini degli Stati e si imponeva come legge universale. Ma i tempi erano diversi. In Italia ora tutto si traduce in uno scenario sconsolante: la democrazia politica è piena di ombre e del tutto subordinata all'economia. L'incosistenza delle classi dirigenti fa sì che non si badi minimamente all'interesse collettivo ma soltanto a quello privatistico. È per questo che non esiste un sistema Paese. Prevale ovunque l'interesse egoistico di una casta politica o di un gruppo di potere privato, lecito o illecito che sia, e sfuma sempre di più l'interesse generale. Questa è la fine della democrazia politica ed economica e il ritorno del medioevo. Un sintomo? Le università italiane costantemente ultime in classifica. Quando il tema della formazione delle classi dirigenti viene così trascurato non c'è futuro per una democrazia. Senza parlare dell'ancor più desolante quadro della giustizia in Italia. Lo stesso sistema capitalistico sta distruggendo i presupposti su cui era nato, vive costantemente in uno stato emergenziale. Nessuno contesta che lo sviluppo economico può essere garantito solo dalla libera concorrenza e che modelli alternativi hanno dato risultati pessimi per non dire catastrofici. Ma bisognerebbe contestualmente introiettare un'altra verità che nessuno ricorda mai: nella storia del capitalismo la libera concorrenza è stata garantita non dal mercato ma dalle leggi antitrust. Ecco perché, come ha osservato il professor Guido Alpa sulle pagine di questo giornale, io faccio un'apologia del diritto, perché il ruolo della politica è quello di fare le leggi e tentare di regolare il mercato.
Lei accenna ai private equity e agli hedge fund ma non li chiama mai «locuste» o «avvoltoi» come si legge spesso nel gergo giornalistico. Cosa ne pensa di questi nuovi «capitalisti» della scena finanziaria mondiale?
Penso in primo luogo che in Occidente l'assetto capitalistico classico non esista più: ma ciò che lo ha sostituito e ne ha preso il nome continua a identificarsi con ogni tipo di organizzazione le nostre società si diano. Dunque credo che ci sia in prima istanza un problema di linguaggio. Continuiamo a definire democrazia quella degli illuministi, da Spinoza a Diderot, da Robespierre a Babeuf, quella ottocentesca, più indietro quella di Pericle e quella da esportare di George Bush ma penso che siano forme di democrazia molto diverse. Eppure la parola usata è sempre quella. Lo stesso vale per il termine capitalismo. Per ciò che concerne poi i nuovi protagonisti a cui lei faceva riferimento credo che abbiano come effetto devastante di allontanare i risparmiatori dalle società. A proposito del dominio della liquidità, i private equity ne sono un esempio clamoroso. E credo che sia un paradosso della nostra epoca che un fondo come Blackstone venga quotato in Borsa. Il massimo del mercato d'azzardo. Non ho mai usato termini come locuste o avvoltoi perché sono convinto che non siano affatto una scoria del sistema stesso, ma piuttosto un fenomeno endogeno al sistema da cui non si torna più indietro. Tra l'altro i nuovi protagonisti della scena finanziaria mondiale sono parte integrante del sistema bancario che ormai domina incontrastato sull'economia e sulla politica. Non è un caso che nella crisi dei subprime siano sotto accusa le grandi banche d'investimento. Le sembrerò drastico ma io sono convinto che siamo a un punto di non ritorno. Non credo proprio che la storia torni indietro e che per esempio si possa tornare come nulla fosse successo al capitalismo familiare. È storia passata, in via di estinzione. Credo piuttosto che dobbiamo aspettarci grandi cambiamenti a seguito dell'ingresso sulla scena dei nuovi protagonisti.
In un passaggio del suo libro accenna in modo assai critico all'uso improprio dei patti parasociali, alle piramidi e ad altri strumenti adottati a livello di corporate governance. Quanto c'è in queste riflessioni della sua esperienza professionale, ad esempio in Telecom?
Lasciamo stare Telecom o Montedison, ormai per me è tutta acqua passata. Le posso dire però che in questo libro c'è tutto me stesso, non ho mai fatto distinzioni tra l'attività professionale e lo studio e quindi quelle critiche all'uso delle piramidi e dei patti parasociali, al conflitto d'interessi, al comportamento più che discutibile di alcuni gruppi privati sono il frutto di riflessioni che affondano le loro radici anche nella mia esperienza professionale. Ci sarà un motivo per cui vengo definito l'uomo dalle dimissioni facili. Per ciò che riguarda la corporate governance e i patti di sindacato l'ho ripetuto più volte: non credo che possa esserci una vera corporate governance fino a quando ci sarà il dominio di minoranze – di controllo - attraverso i patti di sindacato, le piramidi societarie, o altri strumenti creati dalla fertile fantasia dei consulenti legali e finanziari. Se non si risolve alla radice questo problema non si fa altro che accrescere il conflitto d'interessi.
In questo scenario a tinte fosche come vede l'Italia?
Non vorrei passare per la Cassandra di turno, ma io penso che il sistema italiano sia messo peggio di altri sistemi europei. E dall'Europa noi abbiamo sempre recepito le regole più efficienti del capitalismo. Peggio certamente di Francia, Inghilterra e Germania, e come è noto siamo tallonati dalla Spagna. Qualche esempio? A mio parere l'Italia è rimasta fuori dal governo del sistema europeo. Pensi alla politica agricola: chi prevale ormai è la Francia, mentre l'Italia sta scivolando verso il basso. E i fondi strutturali? Sono l'1% del Pil della Spagna mentre noi i fondi per il Mezzogiorno li abbiamo sperperati. Non migliore è la situazione delle infrastrutture dove siamo solo degli spettatori. La verità è che rischiamo di scivolare verso una china che ci allontanerà sempre più dai protagonisti della nuova Europa allargata.
Rimedi secondo lei ce ne sono oppure siamo all'apocalisse? Cosa vuol dire esaltazione del diritto?
Significa che il legislatore deve trovare la forza per disciplinare in modo corretto ed efficace i conflitti d'interesse che dominano incontrastati tutti i gangli della comunità finanziaria e politica. Il controllo delle minoranze sulle società non sarebbe così forte se ci fosse una legislazione vera sul conflitto d'interesse. L'altro grande compito della politica, anche alla luce degli ultimi avvenimenti, è un controllo severo sugli strumenti finanziari. In questo senso un ruolo decisivo lo dovrebbero avere le authority. Che troppo spesso fanno la voce forte con i deboli e vengono invece intimorite dai forti. Mi spiega perché se c'è l'antitrust europeo non ci dovrebbe essere un'agenzia che controlla i mercati finanziari in Europa? D'altronde siamo già dotati di una giurisdizione europea che è già intervenuta proprio sul controllo minoritario nei casi della Volkswagen e della Aem. L'apocalisse è invece un problema dei teo-con, oggi esaltati a destra e a sinistra, e più o meno occultamente ispirati dal giurista nazista, senza coraggio (dal titolo del bel saggio di Alberto Predieri), Carl Schmitt. Io sono comunque fra quelli che non credono alla teologia politica e men che meno alle riserve escatologiche. Credo solo nella difesa del diritto.