«La banca d'affari ha emesso un giudizio buy e ha alzato l'obiettivo di prezzo. Beh, allora compro». Oppure: «Il target price è stato abbassato. Forse è il caso di vendere». Quante volte simili affermazioni rimbalzano nel mercato, nelle chat finanziarie o al borsino? Tante, forse troppe. Anche perché spesso, superato l'effetto annuncio, ci si scorda di guardare se l'indicazione era giusta, se l'obiettivo indicato è stato raggiunto. Insomma, si dimentica la domanda fondamentale: ma l'analista, più o meno, c'azzecca? Un quesito che in questo periodo di crisi dei mercati finanziari, con la fiducia dei risparmiatori nei confronti delle istituzioni finanziarie ai minimi termini, è fondamentale. Una risposta, sul fronte dei target price, arriva da un'ampia inchiesta ancora inedita coordinata e realizzata da Laura Zanetti e Stefano Bonini, dell'Università Bocconi di Milano. I ricercatori hanno analizzato un volume di dati non da poco: oltre 9.800 target price emessi, tra il 2000 e il 2005, da 47 differenti case d'affari; prezzi obiettivo che, poi, sono stati confrontati con l'andamento dei titoli fino al 31 dicembre 2006. Il risultato che, leggendo le tabelle della ricerca, risulta non è proprio confortante.
Target centrati?
Se si prende in considerazione l'andamento del titolo nell'intero lasso di tempo, compreso tra l'emissione del report e la fine del periodo di previsione, il target price è stato centrato in media il 30,85% delle volte. Una percentuale che, però, scende se si confronta la quotazione delle azioni con l'obiettivo di prezzo alla fine del periodo di previsione: qui, in media, solo il 17,08% delle case d'affari c'azzeccato. In particolare, tra quelle che secondo lo studio hanno "centrato" meno obiettivi c'è Metzler (14,3%) e il Credit Lyonnais (16,67%). Dall'altra parte della barricata, invece, troviamo Cazenove (il 66,7% di giudizi azzeccati) Banca Sella (42,86%) e il Banco popolare di Bari (50%). Qui i target raggiunti sono stati di più, ma il retrogusto d'amaro comunque rimane.
Certo, non si può pensare all'analista come ad un "cecchino": le varianti in gioco sul mercato sono varie e calcolare il fair value è, oggettivamente, operazione difficile. I report poi (non si ha motivo di pensare il contrario), sono tutti redatti secondo crismi di professionalità e competenza. E, allora, perché questi target price sembrano essere più "price" e meno "target"?
Le risposte sono varie. Alcune teorie sottolineano che, stante l'effetto "prezzo" dei report sul mercato, quando si dà un'indicazione forte (sia al ribasso sia al rialzo) si può essere indotti a "spingere" il prezzo obiettivo. Così, non è un caso che, come risulta dal working paper della Bocconi, lo "scollamento" del prezzo dai target aumenta ai due estremi opposti nella gamma dei possibili giudizi: nello «strong buy», infatti, la sovrastima è in media del 19,1%; un valore che scende al 7,2% nel semplice «buy» e al 3,34% con l'«hold». Per, poi, riprendere a salire nel «sell» (9,68%) fino ad arrivare ad una sottovalutazione del 18,38% con lo «strong sell».
Conflitti d'interesse
Ma non è solo una questione di, più o meno efficienti, strategie. Altre, secondo gli esperti, possono essere le motivazioni che stanno alla base dei risultati dell'inchiesta.
«In effetti – sottolinea Bonini – la definizione non così efficiente dei target può farsi risalire anche ai "legami" presenti all'interno delle banche. Situazioni di opacità che è difficile eliminare. Certo, si possono creare "cinese wall" tra le divisioni di ricerca e d'investment banking; si può avere un'ottima governance ma la possibilità di un'influenza, seppur implicita, rimane». «Basta pensare alle Ipo – aggiunge Giuseppe Romano, direttore ufficio studi della società di consulenza indipendente Consultique – Se la banca per cui l'esperto lavora è, per esempio, advisor o sponsor dell'operazione è difficile che quest'ultimo possa emettere un giudizio negativo sul collocamento. E ciò indipendentemente dal fatto che, come certamente accade, l'analista lavori con assoluta trasparenza e correttezza».
Si può, peraltro, obiettare che sui report finanziari la disclosure è ampia e totale. La diclosure (per dirla all'inglese) o, più semplicemente, (per dirla all'italiana) l'avvertenza del potenziale conflitto d'interesse deve, infatti, essere indicata nello studio a norma di legge. Di conseguenza, l'investitore e il risparmiatore possono vantare il consenso informato. Cioè, se aderiscono alle indicazioni del report, sanno che, eventualmente, possono sussistere interessi divergenti. «Si tratta – sottolinea Bonini – di una correttezza più a livello formale che sostanziale. Giuridicamente accettabile me che, nei fatti, non risolve il problema».