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L'Eni dei record adesso segna il passo, rendimento in calo

di Orazio Carabini

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14 MARZO 2008

È vero che i record non si possono battere tutti gli anni. E che la produzione non può crescere continuamente. Ma nel 2007 l'Eni dei numeri magici, la stella che ha brillato in Borsa fin dai giorni del collocamento, ha perso smalto. È calata la redditività, il titolo ha segnato il passo, il rendimento per gli azionisti è diminuito. Per carità, l'Eni rimane una società solida, complessivamente ben gestita, con una forte posizione internazionale nella produzione ed esplorazione di idrocarburi, un'inattaccabile leadership nel mercato domestico del gas e un primato anche tecnologico nella costruzione di infrastrutture (Saipem). Ma la corsa verso i 2 milioni di barili di produzione giornaliera, cominciata con Vittorio Mincato nel 1998, si è interrotta e le riserve provate si vanno riducendo.

Tra l'amministratore delegato Paolo Scaroni, che scade insieme a tutto il consiglio di amministrazione alla prossima assemblea di bilancio, e il gruppo del Cane a sei zampe, non è mai nato il feeling giusto. Per rendersene conto bastava vedere le facce dei manager del gruppo petrolifero un anno fa quando Scaroni è entrato nel consiglio di amministrazione delle Generali e si sono diffuse le voci sulla sua possibile nomina ad amministratore delegato della compagnia di assicurazioni.

Un corpo estraneo all'Eni? La stessa domanda si stava ponendo il governo Prodi che avrebbe dovuto decidere sul rinnovo del mandato se le elezioni anticipate non l'avessero indotto a passare il testimone delle nomine al futuro Governo.

I risultati
Da quando è stata quotata, l'Eni ha sempre dato grosse soddisfazioni agli azionisti. La sua performance è stata superiore a quella di molti, a volte di tutti i concorrenti. Nel 2005-2007, invece, tra le grandi oil companies solo la Bp (21%) ha fatto peggio dell'Eni (36%) mentre il prezzo del Brent, nello stesso periodo, è salito del 90%. Nel 2007, a fronte di un +11% del Brent, l'azione Eni ha perso il 2%. E più il petrolio costa più le società petrolifere dovrebbero guadagnare.
Anche il Total shareholder return nel 2007 ha segnato il passo, scendendo da 5,834 a 5,429 miliardi. Sebbene i dividendi distribuiti siano aumentati (4,748 miliardi contro i 4,594 dell'anno precedente) l'acquisto di azioni proprie si è sostanzialmente dimezzato (681 contro 1.240).
Se l'utile netto ha fatto segnare un record anche nel 2007 (10,011 miliardi), l'utile adjusted, che si calcola rettificandolo con l'utile/perdita del valore del magazzino e altre voci non ricorrenti, è sceso dai 10,412 miliardi del 2006 ai 9,47 del 2007 nonostante il favorevole andamento del prezzo del petrolio e del cambio euro-dollaro. Solo la Bp ha fatto peggio.

L'indebitamento alla fine del 2007 è salito a 16,3 miliardi: dal 1996 non si era mai registrato un valore così elevato, il massimo precedente risale al 2003 (13,5 miliardi). Nessuna oil company ha una leva (debiti su mezzi propri) come quella dell'Eni (0,38)che peraltro è attualmente più bassa che in passato (nel 1996 era 0,68, nel 2003 era 0,48).

La produzione di idrocarburi per la prima volta dal 1996 non è aumentata: da 1,770 milioni di barili del 2006 è scesa a 1,736 milioni, includendo le acquisizioni realizzate nel corso dell'anno. Così le riserve certe stanno diminuendo dal 2003 (quando toccarono un picco di 7,272 miliardi): alla fine del 2007 sono arrivate a 6,370 miliardi. La loro vita utile residua è passata dai 14 anni del 2000 ai 10 di fine 2007.

La strategia
Scaroni doveva reagire. E ha reagito. Con un'accelerazione degli investimenti e delle acquisizioni nel 2007. Il suo problema, che è un po' quello di tutta l'industria petrolifera con il barile a 100 dollari, è rimpiazzare le riserve, cercando l'accesso a giacimenti in aree difficili. L'espansione che era cominciata nel 1998 con Mincato e che avrebbe dovuto portare ai 2 milioni di barili al giorno si era interrotta. Tra varie complicazioni. L'impennata del prezzo del petrolio ha indotto i Governi dei Paesi produttori a rimettere in discussione i Psa (Production sharing agreements): per portare a casa gli stessi profitti l'Eni,come le altre big, ha dovuto ridurre la produzione. Il caso più clamoroso è quello del giacimento del Kashagan in Kazakhstan dove, dopo una lunga trattativa, l'Eni, oltre alla quota di maggioranza, ha perso la leadership tra gli operatori coinvolti. Non solo. In Venezuela sono stati espropriati 60mila barili e il caos in Nigeria ne ha fatti sparire 40mila.
L'Eni ha rinegoziato gli accordi con la Libia e l'Algeria, oltre che con il Kazakhstan. Ha fatto pace con il Venezuela. Ma si è messa anche a comprare: Congo, Golfo del Messico, Alaska, Russia (Arctic oil e Urengoil), Angola. Poi l'Opa sull'inglese Burren. In totale ha acquisito 2,3 miliardi di barili di riserve 2P (proven plus probable) ovvero "quasi certe ma non proprio" che porta il totale a 14 miliardi circa, con una vita utile residua di 22 anni che salgono a oltre 43 se si considerano altri 28 miliardi di barili potenziali in campi da esplorare. Ma il mitico obiettivo dei 2 milioni di barili al giorno si è spostato al 2011 nonostante il forte aumento degli investimenti e, di conseguenza, dei debiti. Secondo alcuni analisti, le ultime acquisizioni sarebbero state fatte a caro prezzo. Ma la società sostiene di aver saputo, grazie alle proprie tecnologie avanzate, sfruttare meglio del previsto i giacimenti comprati. E non sembra scontenta dell'esito della trattativa in Kazakhstan, abbastanza deludente secondo la stampa internazionale: in fondo lo standing di major oil company le è rimasto, così come i suoi uomini e le sue tecnologie continueranno a presidiare il più complesso campo petrolifero del mondo.

  CONTINUA ...»

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