L'annuncio domenica della più grande nazionalizzazione di tutti i tempi, con la garanzia di Washington estesa ai 1600 miliardi di dollari del debito obbligazionario delle finanziarie immobiliari Fannie Mae e Freddie Mac, è forse la svolta che si attendeva nella grande crisi che, da un anno, segna il difficile rientro da un eccesso di indebitamento, soprattutto immobiliare e soprattutto americano. Svolta non nel senso di poter considerare conclusa la contabilzzazione delle perdite globali, arrivata a oltre 500 miliardi e stimata recentemente a quota 1500 miliardi su tre anni dal Nobel Joseph Stigliz. Ma nel senso di vedere affrontata l'incognita più grossa fra quante restano aperte, il destino di Fannie e Freddie. La summa e il collimatore di tutto il pasticcio dei mutui americani.
Il quadro si chiarisce abbastanza se si ricorda che cosa sono Fannie e Freddie. Come e perché sono cresciute a dismisura negli ultimi anni. Quali rischi corrono e rischiavano seriamente di far correre alla stessa credibilità finanziaria degli Stati Uniti. Resta il calcolo, per ora impossibile perché legato anche ad alcune varibili cruciali del mercato immobiliare e finanziario americano, dei costi per il contribuente. Ma se la crisi delle Savings and Loans costò 15 anni fa a Washington 124 miliardi di dollari di allora, questa è la cifra di partenza. Così come un'idea, anche politica, della portata della decisione annunciata domenica la si ha considerando che torna definitivamente sotto l'ombrello federale un'entità che nel 1968, quando Fannie pesava assai meno sui conti di Washington, Lyndon Johnson volle staccare il legame per non appesantire conti pubblici assai meno di oggi compromessi, nonostante il Vietnam e la Grande Società.
Creata alla fine degli anni 30, Fannie opera sul mercato secondario dei mutui. Li acquista da banche e finanziarie varie, li cartolarizza, in parte notevole li rivende, anche sui mercati internazionali, li assicura, nel senso che se i mutuatari non pagano, copre Fannie, e la commissione per questo servizio rappresenta il grosso del suo utile, quando c'è. Nel 1970 le fu affiancata Freddie, assolutamente analoga. Le due finanziarie sono il nerbo delle Gse (Government sponsored enterprises), hanno un azionariato privato, emettono titoli ordinari e privilegiati, hanno un regime fiscale molto vantaggioso, ma sono sempre state nell'orbita della mano pubblica. Anche se, a partire dal 1968-70, non hanno mai avuto un legame diretto con il bilancio federale. Né la garanzia esplicita di Washington. Questa c'è dal luglio 2008, con una legge che autorizza Tesoro e Federal reserve ad intervenire; e in toto da domenica, con il passaggio sotto quella che è di fatto una amministrazione controllata, l'esautoramento dei vertici e la nomia di nuovi responsabili.
L'attesa è vedere come reagiranno oggi i titoli a Wall Street. Se poi col tempo l'iniezione di capitali pubblici sarà rilevante, le azioni Fannie e Freddie, che in un anno hanno già perso il 90% e oltre, perderanno ogni valore. Il Tesoro è autorizzato a detenere fino a poco meno dell'80% del capitale.
Fannie e Freedie gestivano alcuni anni fa poco meno di un terzo dei 5200 miliardi di mutui che posseggono oggi, la metà del mercato, una cifra pari a tre volte circa il Pil italiano e a più di un terzo di quello americano. Non hanno praticamente subprime. Quindi la loro crisi riflette quella dei mutui prime, normali, che pure subiscono sensibili insolvenze in un mercato difficile. Già gonfie di titoli, sono state chiamate all'inizo della crisi immobiliare a fare di più dalle stesse autorità americane. Per poi ripiegare, spaventate, su regole più stringenti. Guadagnano quindi sui mutui acquistati di recente. Perdono sugli altri, quelli di 5-2 anni fa, e hanno perso in un anno non meno di 14 miliardi. Devono poi raccogliere, per finanziare emissioni in scadenza, non meno di 250 miliardi nel mese di settembre, a giorni cioè. Sono infatti fra i massimi protagonisti sui mercati nazionale e internazionali, dove raccolgono fondi per finanziare l'acquisto dei mutui e fare quindi girare la macchina immobiliare americana. Se si fermassero, si fermerebbero gli Stati Uniti.
E' il timore che i finanziamenti necessari a settembre arrivassero dal mercato a singhiozzo che ha spinto Tesoro e Fed ad agire. Circa 1300 dei 5200 miliardi di mutui cartolarizzati sono stati venduti a Governi e Banche centrali estere e la sola Cina ne ha per più di 300 miliardi. Impensabile che difficoltà di finanziamento ipotecassero questo mercato.
Il primo quesito adesso è quali saranno i contraccolpi. Senz'altro pesanti per le azioni ordinarie, che già passavano di mano nei giorni scorsi al 5% rispetto a un anno fa ( si veda Il Sole 24 Ore cartaceo del 3 e del 4 settembre a pagina 2). E pesanti anche per numerose emissioni delle privilegiate, cedute la settimana scorsa a meno del 50 per cento. E pesanti per molte banche e finanziarie, tra cui vari istituti regionali, che hanno in titoli Gse parte del loro capitale; così come fondi pensione e altro. Erano affidabili come i titoli del Tesoro. Per questo la nazionalizzazione si è imposta.
I costi ci saranno. Per valutarne la portata, occorre vedere l'andamento del mercato immobiliare, che dalla discesa in campo del Tesoro potrebbe trarre qualche vantaggio. Le perdite saranno valutabili solo nel tempo.
Il vantaggio, alla fine, è che Washington ha smesso di tentare un passaggio della patata bollente al prossimo Presidente e al prossimo Congresso e ha voluto guardare la feccia in fondo alla bottiglia. La débacle finanziaria è grossa. Ma solo a bocce ferme si può davvero risalire. Per questo la giornata di domenica potrebbe alla fine venir considerata, nella storia della grande crisi 2007-2009 (l'anno prossimo finirà, si spera), un punto di svolta.