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Azzerare i rischi, l'illusione di una formula magica

di Mario Margiocco

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18 Marzo 2008

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La formula e le tecniche di Merton e Scholes si scontravano con la realtà già nel '98, nel crack Ltcm, la finanziaria del Connecticut creata nel 94 e che aveva coinvolto sia Merton che Scholes, prove viventi dell'eccellenza di accademia e finanza. Andò male, per eccesso di speculazione e debiti: la Ltcm crollò nel '98 dopo aver dato dividendi del 20%, del 43% e del 41% nei primi tre anni. Merton, Scholes e Black, oggi scomparso, avevano sconsigliato l'uso eccessivo della formula, ma furono ugualmente scottati.
La lezione Ltcm è stata di fatto ignorata. I derivati sono passati da 100mila miliardi di dollari nel 2002, quando Warren Buffett li definì «armi finanziarie di distruzione di massa», a 516mila miliardi a fine 2007, circa 35 volte il Pil degli Stati Uniti. «Il guaio è che una formula che aiuta molto a ridurre i rischi della volatilità non garantisce, né nessuna formula potrebbe farlo, dal vero rischio, che è quello delle perdite sul capitale», dice Frydman. Non esiste la preveggenza perfetta. Le Mbs, o mortgage backed securities, il derivato con cui chi concede mutui si copre dai rischi rivendendo il prodotto, scaricano comunque su qualcuno l'insolvibilità dei mutuatari: è inevitabile. Ed è questo che ha innescato il processo. Dai derivati immobiliari a tutto il mondo dei derivati, una realtà che vive di leverage, cioè di soldi a prestito con cui operare, il passo è stato breve. E non appena le banche, già appesantite di proprio, hanno temuto che i clienti attivi sui derivati fossero troppo esposti, hanno cominciato a chiedere di rientrare (margin calls). Da qui i rischi di insolvenze. Quelle accertate. Quelle temute. E il blocco del credito.
«Sui mutui la promessa dei derivati è stata quella di abolire l'incertezza. E quindi sono stati creati e trattati a piene mani – dice Frydman –. Ma nessuno potrà mai abolire l'incertezza. Sfortunatamente questa volta le conseguenze di modelli che promettono previsioni esatte sono uscite dai seminari e dalle riviste accademiche».
Frydman non fa una valutazione del possibile danno da insolvenze negli Stati Uniti. Nouriel Roubini della Stern school of business di New York, che aveva precisato il 5 febbraio scorso una stima di mille miliardi di dollari, parla ora di 3mila, forse esagerando. C'è chi – Martin Wolf – accetta l'ipotesi di lavoro di 2mila miliardi.
Duemila miliardi, senza contare le perdite aggiuntive qua e là per il mondo, Europa compresa, sarebbero qualcosa di analogo all'intera ricchezza prodotta in un anno (il Pil) da un Paese come l'Italia. La nazionalizzazione della voragine sarebbe l'unica salvezza.
«Speriamo che tenga l'Europa. Questo - dice Frydman - farebbe una grossa differenza. Banche come Ubs sono state duramente colpite, ma nell'insieme l'Europa ha creduto meno alle formule estreme delle "aspettative razionali". Negli Stati Uniti scuole di grido hanno offerto e offrono programmi di Ph.D. basati solo sui derivati e senza un'ora di storia dell'economia, e dei disastri del passato».
Per ora, aggiunge Frydman, non c'è ancora il legame, nel dibattito americano, tra campagna elettorale e crisi finanziaria. Ma si creerà, e alla fine conterà anche chi, fra i candidati, offrirà garanzie di saper meglio ripulire Wall Street. È stata dimenticata - lamenta Phelps - la lezione di economisti diversissimi come John Maynard Keynes, Friedrick Hayek e l'americano Frank Knight, che avevano ben chiara l'idea dell'impossibilità di una conoscenza perfetta. Già nel XVI secolo i maestri spagnoli avevano scoperto che il pretium iustum matematicum era sottoposto a così tante variabili da restare sconosciuto agli uomini e noto solo a Dio. Il pretium sarà alto.
mario.margiocco@ilsole24ore.com

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