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Riscopriamo la lezione della Svezia

di Marco Onado

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7 ottobre 2008

I mercati sono in preda al panico. Ed è ormai evidente che più le autorità cercano di tranquillizzarli, più l'allarme si diffonde, come dimostra il crollo di ieri delle Borse. Il motivo fondamentale è che - nonostante le parole rassicuranti e i sorrisi radiosi con cui sono conditi i comunicati dei governi europei - siamo ancora a interventi caso per caso, in cui si cerca di affrontare singolarmente i focolai d'incendio, alimentando i timori di ulteriori punti di crisi e lasciando i singoli intermediari allo sbaraglio. Gli Stati Uniti hanno commesso lo stesso errore strategico (con l'aggravante di aver sottovalutato gli effetti sistemici della decisione di far fallire Lehman) ma l'Europa da una settimana a questa parte ha inanellato una serie di decisioni, in cui ciascun Paese ha cercato di proteggere le proprie banche e i propri risparmiatori con risultati esattamente contrari alle intenzioni.

Ognuno è andato per la sua strada. Chi ha protetto tutte le passività delle banche (Irlanda), chi i depositi anche al di là delle forme esistenti di assicurazione (Grecia e Germania), chi è intervenuto direttamente nel capitale delle banche (i tre Paesi del Benelux). Nel nome dell'emergenza, si sono introdotte distorsioni competitive proteggendo in modo miope gli interessi nazionali e lanciando messaggi che hanno solo alimentato timori sempre più gravi. Per fare qualche esempio: è giusto che di colpo, tutte le banche irlandesi abbiano ora lo stesso rating dello Stato? Perché Fortis è stata ricapitalizzata dallo Stato mentre banche fondamentalmente sane sono state lasciate sole ad affrontare la speculazione? Perché i risparmiatori tedeschi dovrebbero essere tranquilli, se i depositi da oggi totalmente garantiti rappresentano una frazione soltanto della loro ricchezza finanziaria?

Abbiamo bisogno di un piano che abbia dimensioni europee e che possa affrontare alla radice il vero problema, che è quello della fiducia del pubblico nella solidità patrimoniale delle banche.

L'intervento Usa viene criticato proprio perché non affronta direttamente questo punto essenziale e acquista dalle banche titoli "tossici" anziché immettere capitale. Noi europei rischiamo di commettere lo stesso errore, moltiplicandolo per le distorsioni degli interessi nazionali. Proprio l'Europa aveva proposto negli anni 90 un modello che merita di essere riproposto: quello svedese, che aveva risolto una crisi bancaria di dimensioni superiori al 10% del Pil con un intervento che aveva consentito di superare rapidamente i problemi (grazie, va detto, anche alla crescita mondiale di allora), di aver gestito il processo di valorizzazione degli asset ceduti in modo trasparente e indipendente, con un costo relativamente contenuto per il contribuente svedese (stimato nel 3% circa del Pil). Come dimostra Fabrizio Galimberti (Il Sole 24 Ore del 22 settembre), questo modello presenta ancora oggi elementi di interesse, che devono essere seriamente considerati, con gli ovvi adattamenti a un problema ben più vasto. In primo luogo, la soluzione svedese ha il merito di attribuire ai contribuenti un diritto di proprietà sulle banche oggetto dell'intervento. Sui cittadini irlandesi grava dalla settimana scorsa il peso finanziario di una garanzia su tutte le passività delle banche del Paese, stimata in 400 miliardi di euro. Ma essi non avranno la soddisfazione di esercitare, neppure indirettamente, i privilegi dei diritti proprietari. In secondo luogo, un piano del genere adottato da istituzioni europee eviterebbe una drammatica perdita di credibilità della politica comunitaria in materia di bilancio e aiuti di Stato. Chi oserà ancora parlare dell'una e dell'altra, dopo quello che sta avvenendo in questi giorni per le banche dei vari Paesi?

Il piano da 300 miliardi che Nicolas Sarkozy aveva annunciato qualche giorno fa sembra scomparso dall'agenda. Era quella la vera risposta europea al piano Paulson, ma ciascun Paese ha mostrato di preferire risposte individuali, con risultati sotto gli occhi di tutti. Il mito dei campioni nazionali che aveva accecato i governi nella fase del boom opera anche mentre il sistema finanziario mondiale è sull'orlo dell'abisso. È stata superata la remora alla proprietà statale delle banche, almeno da quando un anno fa è stata nazionalizzata Northern Rock nel Paese in cui predicò Margaret Thatcher. Ma la tentazione di affrontare la crisi a spese del vicino (il vecchio vizio del "beggar-thy-neighbour" che fu una delle cause della Depressione degli anni 20) è sempre in agguato, sia quando si rinuncia a mettere in discussione gli assetti proprietari delle banche nazionali, sia quando si pensa già a posizionarsi per la grande ristrutturazione del sistema bancario europeo che avverrà a crisi risolta. Già ieri, per esempio, la francese Bnp si è assicurata per oltre 14 miliardi il controllo dei rami belga e lussemburghese di Fortis. Tutto deciso fra governi e management delle banche. Quello che in Italia chiamammo con orrore il piano regolatore del sistema bancario sembra oggi riproposto su scala europea. Si crede davvero che siano operazioni di questo tipo a ricostruire un bene essenziale come la fiducia dei risparmiatori?

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