Telefonica batte un colpo. Per la prima volta, almeno pubblicamente, da Madrid arriva un accenno critico nei confronti della partecipazione italiana in Telecom, che finora non le ha dato grandi soddisfazioni. Agli attuali livelli intorno a 1 euro la perdita virtuale per gli spagnoli, che avevano accettato di pagare 2,85 euro ad azione per entrare in Telco, si aggira intorno ai 2,5 miliardi. A settembre il presidente Cesar Alierta aveva fatto un giro ad ampio raggio in Italia per verificare le possibilità di sbloccare la situazione, ma senza trovare aperture. A un certo punto era anche affiorata l'ipotesi di utilizzare Tim Brasil come "merce di scambio", un'eventualità però soffocata sul nascere. E Telefonica si ritrova così vincolata per altri due anni a un patto di sindacato con gli altri soci italiani di riferimento (Mediobanca, Generali, Intesa-Sanpaolo e Sintonia-Benetton) che non le lascia grandi spazi di manovra.
Così ieri, all'incontro con gli investitori organizzato da Morgan Stanley a Barcellona, il direttore finanziario dell'operatore iberico, Santiago Fernandez Valbuena, ha sbottato: «Far entrare nuovi capitali in Telecom alle attuali quotazioni non è una prospettiva attraente per i soci già presenti nell'azionariato come noi». «Non siamo entusiasti all'idea di veder diluita la nostra quota (che indirettamente è superiore al 10%, ndr) a questi livelli – ha aggiunto il cfo – Detto questo, la situazione è sufficientemente difficile per noi da essere aperti a tutte le questioni».
In realtà l'idea di far entrare nuovi soci agli attuali valori depressi di Borsa non è mai stata presa seriamente in considerazione né da Telecom, né da Telco, la holding che ne controlla il 24,5% del capitale ordinario. Giusto a settembre si era esplorata la possibilità di coinvolgere i fondi sovrani – in particolare i contatti erano con Tripoli – in un'operazione centrata sulla sottoscrizione di un prestito convertibile che avrebbe potuto portare i libici e altri soggetti eventualmente interessati a rilevare fino al 10% del capitale di Telecom, ma le trattative si sono poi arenate sulla materiale impossibilità, visto l'andamento erratico della Borsa, di stabilire un prezzo congruo.
Analogamente, l'opportunità che si è presentata nel corso dell'ultimo mese – l'ipotesi di uno scambio azionario con 3 Italia – dal versante Telecom non è mai stata considerata praticabile al di sotto di certi livelli di prezzo, vale a dire non meno di 2 euro per azione, il doppio cioè delle attuali quotazioni. Mentre il valore di 1,3 euro che, secondo le indiscrezioni, il magnate cinese Li Ka Shing sarebbe stato disponibile a riconoscere, da parte italiana non sarebbe stato giudicato sufficiente neppure a intavolare una trattativa. Tuttavia anche su questa opzione, ancor prima che le smentite di circostanza di 3 Italia, grava un'incognita di non poco conto, dal momento che l'utilizzo da parte di Telecom dei circa 2 miliardi di perdite fiscabili accumulate da 3 potrebbe configurare l'ipotesi di elusione. Un problema spinoso tanto più per Telecom che non ha ancora risolto col Fisco il contenzioso legato a Blu, incorporata sei anni fa, e la cui risoluzione è condizione preliminare ad ogni possibile mossa in questa direzione.
Ma il direttore finanziario di Telefonica, all'incontro di Barcellona, si è spinto oltre, rilevando che «l'indebitamento di Telecom potrebbe richiedere qualche intervento in termini di quanto debito in rapporto al capitale e circa la composizione stessa del capitale». Valbuena non ha approfondito ulteriormente il tema, ma è un fatto che il livello di indebitamento che grava su Telecom (35,7 miliardi a fine settembre) non consente al gruppo la sufficiente flessibilità sul piano finanziario. Tuttavia sarebbe un azzardo ricorrere in queste condizioni di mercato a un aumento di capitale aperto – tanto più se non finalizzato al sostegno di un'operazione di sviluppo – perché il titolo ne uscirebbe ulteriormente massacrato.