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Borsa italiana si sgonfia: ora vale il 17% del Pil

di Antonella Olivieri

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8 Marzo 2009

Eutanasia di una Borsa. La crisi finanziaria che ha duramente penalizzato i listini di tutto il mondo, ha colpito ancora più duro su Piazza Affari. In poco più di otto mesi la rappresentatività della Borsa italiana si è dimezzata, crollando dal 35% al 17% del Pil. Siamo tornati indietro di vent'anni, ai livelli del 1988, quando c'erano ancora le grida e gli agenti di cambio, i fondi comuni stavano muovendo i primi passi e sul mercato azionario si scambiavano 85 milioni di euro al giorno. Una distanza abissale dalle vette toccate nel boom del 2000, quando Piazza Affari era lievitata al 70% del prodotto interno lordo.

Com'è che tutta l'élite dell'industria e della finanza della Penisola è arrivata a valere meno del patrimonio immobiliare di una città come Milano? C'è una risposta immediata che riguarda l'ultima settimana di passione, in cui l'indicatore principale del listino milanese, cedendo oltre il 15%, ha ampliato il divario con l'Europa: dall'inizio del 2009 l'S&P/Mib ha perso il 33,74%, quasi il doppio rispetto al -18,98% segnato dall'indice Stoxx continentale. Nelle cinque sedute che hanno inaugurato il mese di marzo è successo qualcosa di molto simile a quanto avvenne un anno fa sui mercati del Vecchio Continente con la liquidazione del portafoglio azionario di SocGen, costretta precipitosamente a chiudere le posizioni per il buco emerso nella sua divisione derivati.

Con precisione, di chi sia la responsabilità questa volta nessuno lo sa. In Piazza Affari è partita la caccia al colpevole: chi dice si tratti dell'effetto di consistenti basket azionari di qualche banca anglosassone, chi sospetta delle conseguenze di un'azione di copertura di massa da parte delle compagnie di assicurazione, chi cerca di capire se siano scattate liquidazioni forzose. Ma per ora l'unico fatto certo è che i flussi di vendita sono arrivati soprattutto dall'estero. E questo complica le cose per chi, come la Consob, sta cercando di ricomporre il puzzle.

C'è poi una risposta più sostanziale, che riguarda il forte peso dei titoli finanziari sul listino milanese, tuttora vicino al 40% nonostante il crollo delle quotazioni. Un peso attribuibile in particolare alle banche, che contano per quasi il 30% della capitalizzazione complessiva, quando per avere un termine di confronto, a Francoforte rappresentano meno del 4%. È logico che la crisi, partita dalle banche e scaricatasi soprattutto sulle banche, finisca per penalizzare i mercati che sono più esposti al settore.

Non è sempre stato così. Utilizzando gli indicatori Mediobanca basati sul flottante, si scopre che dodici anni fa, a inizio '97, la quota delle banche sul totale dei titoli in circolazione era appena del 17,5%. Poi sono arrivate le privatizzazioni - Bnl, Banca Roma, Sanpaolo, Mps - che hanno inondato il mercato di carta bancaria, spingendone il peso, a fine decennio, oltre il 30%. Ma il salto dimensionale più appariscente è attribuibile a un'unica operazione: la fusione UniCredit-Hvb che ha gonfiato l'esposizione al credito del listino milanese fino al record del 37% toccato a fine aprile 2007.

Certamente il mercato ha fatto la tara ai plusvalori riconosciuti nell'euforia del consolidamento, che hanno fatto esplodere gli asset immateriali in bilancio. Per esempio, UniCredit in pochi anni ha visto decuplicare gli avviamenti, dagli 1,9 miliardi del 2005 ai 19,1 miliardi del 2007, quando oggi l'intera banca vale in Borsa meno di 11 miliardi. Poste che, nello stesso periodo, si sono addirittura moltiplicate per venti nel bilancio di Intesa-Sanpaolo, da 869 milioni a 17,5 miliardi, contro una capitalizzazione scesa venerdì a 18 miliardi. E gli avviamenti lieviteranno anche nel bilancio 2008 di Mps, per l'onerosa acquisizione di Antonveneta, pagata meno di un anno fa il doppio dei 4,5 miliardi che l'intero gruppo vale oggi in Borsa. Ma il problema è più generale, perché anche l'industria e i servizi non ne sono esenti, come dimostrano i 44 miliardi di avviamenti di Telecom o i 26 miliardi di attivi immateriali di Enel, già prima del completamento dell'operazione Endesa.

E, infine, c'è una risposta più strutturale. Negli ultimi anni Piazza Affari è solo scesa nella graduatoria delle Borse continentali. Nel '99 Milano era davanti a Madrid, Zurigo e Amsterdam, con una capitalizzazione intorno ai 730 miliardi. Le stesse identiche dimensioni che aveva a fine 2007, quando però era già stata sorpassata da tutte. E oggi, ai dati aggiornati a venerdì, il valore delle società quotate sul listino milanese si è ridotto a poco più di un terzo, precipitando a 272 miliardi.

Quale il problema? Più di dieci anni di Borsa privata non sono riusciti a convincere le imprese a correre in massa al listino, che sul mercato principale a fine 2008 contava ancora meno di 300 società quotate. Ma se anche gli sforzi di Borsa italiana fossero stati ricompensati, non sarebbe cambiato molto. Nel Paese che ospita il 20% delle Pmi continentali, le medie aziende pesano solo per lo 0,3% della capitalizzazione complessiva: se anche triplicassero di numero non arriverebbero all'1%. Del resto, esaurita l'ondata delle privatizzazioni, all'appello mancano solo pochi grandi gruppi: le Poste e le Fs nel pubblico, Riva, Ferrero o Barilla nel privato. Con l'aria che tira sui mercati, non c'è verso che l'alleanza con Londra possa cambiare il quadro. Timing sfortunato per un passo a lungo meditato che, nell'attuale congiuntura borsistica, non potrà portare i benefici sperati. Con la dote degli anglosassoni il bacino di liquidità si è allargato in termini relativi, ma si è prosciugato in termini assoluti. E l'Aim, il mercato della City dedicato alle Pmi che grande successo ha riscosso negli anni passati, ora è stato esportato anche in Italia: ma di matricole neanche l'ombra. E chissà per quanto ancora.

8 Marzo 2009
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