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L'Islanda è lo stress test delle pensioni

di Marco Liera

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30 maggio 2009

Che succede ai fondi pensione di un Paese che arriva sull'orlo della bancarotta? Dipende dalle attività in cui sono investite le attività dei fondi. Come dimostra il caso dell'Islanda, la cui previdenza integrativa da 14 miliardi di dollari si è in parte sottratta al collasso finanziario. Ne ha parlato in settimana il «Wall Street Journal», riportando che i fondi pensione islandesi nel 2008 si sono mediamente svalutati del 9,2% (in valuta locale), a fronte del quasi-azzeramento (-95%) della Borsa di Reykjavik. Questo perchè anche in Islanda i gestori dei fondi hanno diversificato all'estero i risparmi dei lavoratori. Viste le ridotte dimensioni pre-crisi del mercato finanziario islandese, non c'erano grandi alternative. La vicenda segnala da una parte che la diversificazione e la separazione del patrimonio dei fondi proteggono dal peggio, ma che la loro volatilità in caso di eventi estremi non è trascurabile (tenendo anche conto della svalutazione della moneta in cui è misurata la performance).

L'economia italiana è ovviamente molto più ampia e stabile di quella islandese, e anche il patrimonio dei fondi pensione domestici prevede regole stringenti di diversificazione. Il che purtroppo può far inciampare in bond Lehman Brothers o Glitnir Bank; ma la svalutazione integrale di un titolo che pesa lo 0,1% del portafoglio, pur essendo grave, è rimediabile. L'esposizione all'economia di un solo Paese espone a un "cigno nero", evento raro a impatto catastrofico, come tale irrimediabile. A fine 2007, il portafoglio dei fondi pensione negoziali italiani era investito al 74,2% in titoli di debito (obbligazioni, titoli di Stato e così via), di cui il 47,3% esteri, e il 25,8% in titoli di capitale, di cui il 23,6% esteri. La qualità della gestione è in ordine sparso e sovente molto deludente, ma i presidi di protezione delle attività previsti da regole e standard di mercato sembrano adeguati.

Ai lavoratori italiani iscritti ai fondi pensione e che non hanno scelto le linee garantite (che nel lungo periodo sono però esposte al rischio di erosione inflattiva) resta totalmente addossato il rischio dei mercati in cui sono investiti i loro risparmi previdenziali. La grande crisi ha riaperto il dibattito su quali siano gli investimenti più adatti per i fondi pensione. L'equity risk premium, ossia la superiorità dei rendimenti delle azioni sulle obbligazioni nel lungo periodo, ampiamente dimostrata nel ventesimo secolo, è messa alla berlina. Una buona parte della migliore accademia (Zvi Bodie, Peter Stanyer e altri) suggerisce il massiccio impiego di linkers, titoli di Stato e sovranazionali agganciati all'inflazione, come scelta di default per chi vuole "pilotare" i risparmi attuali a una data futura proteggendo il loro potere d'acquisto. Ma anche il profeta delle azioni per il lungo periodo, Jeremy Siegel, apprezza molto questi strumenti. I linkers sono di fatto la scelta senza rischi (risk free) di lungo periodo.

Senonchè queste riflessioni sembrano affette da una certa ciclicità. Ora è facile dire che anche chi vuole far crescere il capitale nel lungo periodo deve stare lontano dalle azioni. Fondamentale è ricordarsi che chi è più vicino alla pensione (se mancano meno di dieci anni) dovrebbe investire i suoi risparmi previdenziali solamente in titoli di debito sicuri, con un approccio "ciclo di vita" (life cycle) che già alcuni veicoli previdenziali adottano. Il rischio di trovarsi con una pensione insufficiente richiede scelte rigorose. In Islanda come in Italia.

30 maggio 2009
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