NEW YORK - Non basta dire di voler essere il primo. E non basta neanche essere il più grande editore al mondo per avere la sicurezza di realizzare le proprie idee. Così Rupert Murdoch, che due mesi fa aveva annunciato di voler far pagare l'accesso ai siti online dei suoi giornali («L'informazione è un bene prezioso, offrirla gratis equivale a svenderla» aveva detto il tycoon australiano), ha mandato in avanscoperta il capo del digitale di News Corp per sensibilizzare i concorrenti sul tema. Il risultato, dopo la serie di incontri che Jonathan Miller ha avuto con New York Times, Washington Post, Hearst Corp e Tribune, è che si cercherà di arrivare a un consorzio tra le testate per stabilire comuni regole e modalità di accesso all'informazione a pagamento. Insomma, dopo essere partito in corsa solitaria tra lo scetticismo di chi ritiene inattaccabile la gratuità dell'accesso alla rete, ora Murdoch cerca alleati per far fronte comune. Ha capito che la singola iniziativa non porta da nessuna parte, e che deve essere tutta la categoria a mobilitarsi per evitare sperequazioni tra chi fa pagare e chi invece continua sulla strada del libero accesso. In questo il capo di News Corp ha fatto tesoro di quanto sta succedendo in Italia, dove Piergaetano Marchetti, volitivo presidente della Rcs, tra i colleghi editori cerca proseliti alla causa delle notizie premium. E se ancora non è chiaro come il consorzio intenderà procedere - abbonamento una tantum modello Wall Street Journal, che vanta oltre un milione di sottoscrittori per la sua edizione online; oppure micropagamenti per gli articoli che interessano - chiaro è invece il nemico da battere: Google e tutti gli aggregatori di notizie che, parole di Robert Thomson, il giornalista australiano che dopo aver raddrizzato Times ora ha preso le redini del Wsj, «con la scusa che le notizie devono essere gratis, vivono come parassiti o vermi solitari nelle viscere di internet». Insomma, far pagare gli internauti non sarà impresa semplice, ma basta con questo copia e incolla che svilisce il lavoro dei giornalisti e contribuisce alla nefasta idea che tutto sia dovuto senza metter mano al portafoglio.
Riusciranno gli editori a compattarsi su quella che sta diventando una battaglia di principio? A onor del vero, lo scetticismo tra gli addetti ai lavori prevale. E per almeno tre ragioni. Primo: è sempre difficile far pagare qualcosa a qualcuno che finora ne ha sempre usufruito gratuitamente. Secondo: lo è altrettanto quando si tratta di criptare contenuti online con protezioni che potrebbero risultare facilmente aggirabili. Terzo: lo è ancora di più quando si propongono all'utente contenuti generalisti che può facilmente reperire da una miriade di altre fonti. Da questo punto di vista il successo del modello Wsj fa testo fino a un certo punto, trattandosi di un'informazione specialistica il cui target di interesse è ben definito. C'è anche una quarta ragione, non meno dirimente: gli analisti sono convinti che gli eventuali ricavi ottenuti dal digitale per molto tempo non compenseranno le perdite dei giornali cartacei, perché il modello di business è ancora troppo aleatorio. Un aspetto che riguarda soprattutto la pubblicità. Quella su internet pesa per il 12% dei ricavi complessivi dei giornali, troppo poco per archiviare senza remore i vecchi modelli.
Comunque, gettato il sasso, ora l'obiettivo di Murdoch è quello di procedere sulla via del consorzio. Lui è assolutamente convinto che l'esperienza del Wsj sia riproducibile con successo, almeno quanto il riuscito tentativo di rendere i suoi contenuti accessibili non solo per gli addetti ai lavori. A breve seguiranno altri incontri tra editori per definire soprattutto possibili piattaforme di pagamento. Procedendo però con piedi di piombo e massima discrezione, per non dare l'impressione di preparare accordi di cartello. Cosa che l'Antitrust non farebbe certo passare sotto silenzio.