«Locuste! Barbari!» Passa il tempo e la terribile fama degli hedge fund non accenna a migliorare. Una volta era soprattutto la Germania a tuonare contro questi fondi, colpevoli di acquisire partecipazioni rilevanti nelle società (di solito, guarda caso, le più promettenti di un paese), succhiare loro la linfa vitale e abbandonarle riducendole sul lastrico.
Oggi è la Grecia a mettere al bando gli hedge dalle aste sui propri titoli di Stato e, più in generale, i governi di Europa e Stati Uniti a invocare misure in grado di frenare le attività speculative di questa sorta di filibustieri del ventunesimo secolo. Rei di destabilizzare i mercati e fare i soldi sulla pelle altrui spaziando dai bond, ai misteriosi credit default swap, alle commodity, per concludere con le valute.
Della frenetica attività attorno alle società quotate in Borsa, per la verità, si parla un po' meno. Anche perché, si dice, gli hedge hanno progressivamente allentato la presa, dirigendo le affamate mandibole verso mercati che rappresentano prede più succose. Del resto, di dati ufficiali che attestassero l'attacco dei «fondi speculativi» (così come curiosamente vengono ancora definiti dalla nostra legislazione) non ce ne sono mai stati molti.
Ed è forse proprio per la scarsità di documentazione probatoria che non è passata inosservata una recente ricerca condotta dalla Financial Services Authority (Fsa), l'autorità di controllo del mercato britannico: una fonte autorevole, anche perché indipendente, che ha scandagliato i comportamenti dei principali 50 hedge fund di casa loro alla ricerca di «possibili fonti di rischio sistemico». Un campione non certo indifferente, visto che le loro attività raggiungono i 300 miliardi di dollari, circa un quinto degli asset detenuti dall'industria a livello globale.
I risultati? Niente di niente, visto che al 31 ottobre 2009 (data della ricerca) i fondi hedge presi in esame «non rappresentano un rischio sistemico per il mondo finanziario». E quando si pone l'attenzione in modo specifico alle loro partecipazioni azionarie nei gruppi quotati in Europa, si scopre addirittura che la quota si attesta appena lo 0,9 per cento. Francamente un po' poco per essere accusati di decidere le sorti delle Borse.
Insomma, vista così sembrerebbe la classica montagna che partorisce il topolino. Ma anche se si allarga l'orizzonte (e il campione) la storia non è che cambi poi molto. Per avere uno spaccato attendibile della situazione negli Stati Uniti si può fare riferimento a uno studio di Bank of America-Merrill Lynch che fotografa la situazione a fine 2009. Ebbene, in questo caso la quota delle società che compongono l'indice Russel 3000 (e che rappresentano circa il 98% del mercato azionario di Wall Street) in mano agli hedge raggiunge il 4 per cento.
Il confronto con gli anni passati e con l'andamento dell'indice azionario (si veda il grafico a fianco) dimostra che le partecipazioni hanno almeno negli ultimi due anni un andamento non del tutto correlato, ma nemmeno tanto distante dagli alti e bassi della Borsa: un fenomeno coerente con un atteggiamento più prudente adottato dagli hedge al cospetto della crisi finanziaria. Tornando poi indietro negli anni si scopre che il picco delle partecipazioni azionarie si è toccato alla vigilia della bufera Lehman, con il 5% però, e non con le percentuali a due cifre che spesso vengono ricordate da chi mette sotto accusa i «fondi locusta».
Anche in Italia si nota un certo disimpegno di alcuni hedge: l'indagine più aggiornata è quella pubblicata da MondoHedge, che risale però a quasi due anni fa. I documenti Consob svelarono allora ben 54 partecipazioni superiori al 2%, distribuite tra 41 società con una capitalizzazione complessiva di 27,9 miliardi, di cui 1,1 miliardi (poco meno del 4%) facenti capo agli hedge fund. Oggi, a un primo sguardo, la quota appare ridimensionata: rimangono sì partecipazioni che ormai si possono definire «storiche» come quella di Amber Capital in Zucchi e Vianini Industrie e quella di Parvus in Mutuionline (vedi tabella a fianco), ma in generale si assiste a una riduzione del numero e della grandezza delle quote.
Tornando a ragionare in ambito internazionale, invece, si nota una maggior attenzione al fenomeno da parte delle authority: la ricerca della Fsa avrà infatti cadenza semestrale, mentre il comitato tecnico dello Iosco – la federazione dei regulator mondiali – ha pubblicato due settimane fa i dettagli sulle informazioni da richiedere agli hedge fund per predisporre a partire dal prossimo settembre un report sui possibili rischi sistemici. Demonizzare non serve, una maggiore trasparenza e una comunicazione più accurata sulle attività degli hedge probabilmente sì.