Di fronte ai flash si sono presentati ieri sorridenti, fianco a fianco, all'entrata del Palazzo Justus Lipsius di Bruxelles dove si teneva l'Eurogruppo. Ma poco prima, sulle rosate pagine del Financial Times, erano volati stracci tra madame Christine Lagarde e herr Wolfgang Schäuble sull'ipotesi di un Fondo monetario europeo e sull'esigenza che la Germania stimoli la domanda interna. L'elegante ministro delle Finanze francese non poteva essere più esplicita nel richiamare il collega tedesco a fare la propria parte per ridurre un surplus commerciale che pesa sull'eurozona e nel ridimensionare l'ipotesi, sponsorizzata da Berlino, di un Fme che richiederebbe comunque «tre, quattro, cinque anni» per essere allestito, riformando i Trattati Ue.
Lagarde ha anche espresso dubbi sulla «sostenibilità del modello tedesco», basato su costi del lavoro compressi, provocando una risentita risposta del governo tedesco che ha rimarcato come non si possa uccidere la concorrenza in Europa. Pesanti recriminazioni reciproche che hanno offuscato la discrezione e il tradizionale fair play che vige nel nucleo carolingio dell'Unione europea.
Per non parlare di un altro più tradizionale solco che continua a dividere Londra dall'Europa continentale sulle nuove regole per la supervisione dei mercati e i credit default swap. Ma parole grosse sono volate in questi giorni anche al di là dei confini comunitari, sul corridoio transatlantico, con il segretario al Tesoro Timothy Geithner risoluto nell'accusare gli europei di protezionismo, per la discriminazione a danno dei fondi americani che si nasconderebbe tra le pieghe della proposta di direttiva sugli hedge fund. Nuove norme che li sottoporranno ad autorizzazione e registrazione obbligatoria da parte delle agenzie nazionali dei 27. Da Washington è stata così ritorta contro il Vecchio continente l'accusa di miope unilateralismo, tradizionalmente lanciata dalle sponde europee all'indirizzo degli States.
Anche sul fronte del Pacifico nuovi scambi di accuse al vetriolo sono esplosi nelle ultime ore. Se il Congresso americano sta spingendo Barack Obama a bollare come "manipolatore di valute" Wen Jiabao, il premier cinese ha già respinto sdegnosamente al mittente le pressioni, accusando di protezionismo Washington che gli chiede di apprezzare il renminbi per aumentare il proprio export.
Ovunque sembrano riaccendersi nel mondo focolai di tensione, incomprensioni e divergenze sul terreno economico. Il tutto nel momento in cui Moody's fa aleggiare minacce di downgrading sul debito dei Grandi, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, e in cui si fa sempre più forte l'esigenza di regole di governance globale per evitare ogni ricaduta nella peggiore crisi e per dare corpo all'ancora gracile corso della ripresa globale. I leader dei principali paesi al mondo faticano però ad assumere un passo di portata internazionale e continuano ad ansimare sulle proprie agende nazionali. E così Angela Merkel, delusa dagli effetti modesti della coalizione con il liberale Guido Westerwelle, getta sul tavolo una proposta di Fme, che contiene anche la possibilità di far uscire dall'euro i poco virtuosi e di preservare, con sanzioni rigorose, il totem e tabù tedesco della stabilità monetaria. E ottiene in risposta dai ranghi di un Nicolas Sarkozy, sotto fresco schiaffo elettorale, un piccato richiamo a stimolare la domanda e a varare meccanismi di sorveglianza più flessibili sui bilanci dell'eurozona. Segnali di distonìa del tradizionale motore franco-tedesco, che fanno capire quanto sia difficile non solo progredire verso un governo dell'economia europeo, ma anche semplicemente mettere in piedi efficaci strumenti coordinati per far fronte a crisi asimmetriche dell'eurozona, come l'Eurogruppo ha ieri confermato.
Nel frattempo, sullo scenario mondiale, uno zoppicante Obama fa la voca grossa con l'Europa e con Pechino, ma non riesce a impedire che gli squilibri mondiali crescano e che la Cina si avvii quest'anno, secondo l'Fmi, a un surplus di 450 miliardi di dollari, 10 volte più del 2003. Difficile capire, con questi chiari di luna, dove possano attecchire i semi di una exit strategy condivisa e di una nuova Bretton Woods, tanto invocata nei momenti più bui della crisi. Difficile scorgere grandi leader e politici che non si facciano abbagliare solo dai fugaci flash dell'opinione pubblica nazionale.
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