Un deposito di diamanti per un valore stimato di circa 4 milioni di euro è stato localizzato dai Carabinieri del Ros all'interno di un doppio fondo della cassaforte della gioielleria di Piazza Campo dei Fiori 52 di cui, nei giorni scorsi, la Procura Distrettuale Antimafia di Roma, coordinata da Giancarlo Capaldo, aveva ottenuto il sequestro dal Gip di Roma, Aldo Morgigni, nell'ambito dell'inchiesta sul riciclaggio che ha portato in carcere, tra gli altri, l'imprenditore Gennaro Mokbel.
I diamanti, si legge in una nota del Ros, per oltre 150 carati, sono stati rinvenuti insieme ad altri preziosi e a denaro contante per alcune migliaia di euro. Le indagini del Ros hanno accertato come gli ingentissimi capitali illegali riciclati all'estero dal sodalizio, venissero recuperati attraverso istituti di credito svizzeri, lussemburghesi e sammarinesi per essere reinvestiti nel settore dei diamanti. Le pietre preziose, in particolare, venivano estratte in Uganda, lavorate in laboratori dell'Estremo Oriente e commercializzate nella Capitale attraverso una serie di gioiellerie controllate, con la completa reintegrazione dei cespiti nel circuito economico legale.
Intanto sono stati consegnati alle parti i verbali dell'inchiesta. C'è anche quello di un interrogatorio di quattro ore rese in veste di indagato il 13 marzo del 2007 da Silvio Scaglia. Il fondatore parla del traffico di schede telefoniche al centro della presunta frode il cui funzionamento è stato descritto sul Sole 24 Ore. «Noi adesso vediamo la macchinosità dell'operazione. Ma ribadisco che per noi la compravendita di traffico era un business assolutamente regolare», disse allora Scaglia ai pm romani Giovanni Di Leo e Francesca Passaniti. Quell'interrogatorio, che la procura ha messo ora a disposizione delle parti assieme a un materiale investigativo di proporzioni inaudite, si rese necessario per contestare al fondatore di Fastweb, secondo l'ottica dei magistrati, «una fittizia operazione commerciale di produzione e vendita di carte che consentivano l'accesso via internet di servizi a valore aggiunto coperti da copyright, dette Phuncard» che consentì all'azienda telefonica una frode fiscale per decine di milioni di euro.
Questa, in sintesi, fu la difesa dell'ex numero uno di Fastweb: «L'affare phuncard nasce come esigenza di continuità di rapporto con una società come Cmc (una delle scatole che secondo l'accusa servivano ad attuare la frode ndr.) che era un cliente che non volevamo perdere. Ci siamo posti un problema di "effettiva e reale" convenienza dell'affare. Prima del 2002 il fatturato con i numeri Premium era di qualche decina di milioni di euro. Nel 2003 il fatturato con le phuncard arriva a 200 milioni di euro. Il mio interlocutore in azienda era Angelidis che diventa Ad con l'assemblea di aprile del 2003. C'è una divisione di compiti in azienda tale per cui si può affermare che c'era elevata autonomia operativa tra i settori; io mi occupavo anche di tutte le altre società del gruppo E-Biscom del quale stavo anche seguendo la dismissione».
Scaglia, poi, spiegò ai pm che erano stati fatti «diversi controlli per verificare l'esistenza delle carte; esistono i siti - aggiunse - con cui le carte venivano usate. Per noi era un business reale ed esistente. I fiscalisti ci avevano detto di accertare se l'affare era reale e per questo avevamo mandato in missione la Farrow; il mercato non riguardava l'Italia ma non so indicare in quali Paesi le carte venissero commercializzate». Ai pm che gli chiedevano perchè mai l'Italia dovesse essere interessata se la ragione economica dell'affare era tutto estera, Scaglia disse che «la Cmc per noi era un cliente e l'operazione faceva drenare liquidità. Per noi il rischio era quello dell'insolvenza per cui avevamo previsto il meccanismo del prepagamento».
Così funzionava il «triangolo delle chat»