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Tra cronisti e familiari, il ricordo della gente comune

di Serena Danna

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6 novembre 2007

Alle 9 del mattino Milano è ancora intasata dal traffico, invasa dai rumori e dalla confusione degli automobilisti. Via Mercalli, la strada silenziosa della Clinica Capitanio, sembra essere in una bolla di vetro. All'entrata della struttura una trentina di giornalisti sono pronti a interrompere con le domande il flusso di amici e colleghi che vengono a dare un saluto ad Enzo Biagi. La reazione davanti all'annuncio della sua morte è stranamente discreta e composta, come raramente accade, forse perché in tanti vivono l'evento come fosse una prova da dare a quello che è stato il maestro di tutti gli aspiranti cronisti. La figlia Bice al primo incontro con la stampa dice: «Tutti lo ricordate come Enzo Biagi, io ricordo mio padre». Piange e non smette mai di ringraziare la gente comune che nei giorni di ricovero «ha dimostrato un grande affetto a mio padre». Sono state tantissime, infatti, le lettere, le e-mail e le telefonate di persone che nei giorni scorsi hanno partecipato alla lotta contro la morte di Biagi, come oggi partecipano al dolore dei suoi familiari. Alle 10 si apre la camera ardente e la naturale ressa di operatori, fotografi e cronisti si calma davanti alla vista del "maestro" nella bara. Tranquillo e fiero, sul petto la spilla di Giustizia e Libertà, dono di un amico partigiano. Perché Enzo Biagi voleva essere ricordato così, «come il partigiano che iniziò combattendo la sua lotta per la libertà» dice Loris Mazzetti, coautore de «Il Fatto». Nel cortile della camera ardente, i ricordi sono tanti, si alternano quelli felici, «il patriarca che chiedeva a tutti come stai» dice la figlia Carla che lo ricorda «affezionato a due categorie, gli operai e i partigiani», e quelli dolorosi, come l'"editto bulgaro" che, racconta la signora Gioia che ha una rosa rossa tra le mani, «ce l'ha portato via dalla televisione ma non dalle coscienze». Le apparizioni "illustri" si moltiplicano con il passare delle ore: direttori di giornali, colleghi Rai, rappresentanti della Milano "perbene". Ma i protagonisti veri sono loro: le persone comuni, quelle che Biagi amava e da cui veniva amato. Così, le parole dell' «amico celebre» scompaiono davanti al pianto addolorato e sincero della governante filippina. Mentre aspettiamo l'apparizione delle istituzioni cittadine, veniamo catturati da due anziane signore che si avvicinano alla camera ardente con un cartello al collo che recita «Ciao Enzo, sei il nostro maestro». Le nipotine di Biagi accolgono le due anziane come due amiche di famiglia, le ringraziano e le abbracciano. Così le infermiere della clinica, che in fila, si affacciano per onorare la salma del «nostro giornalista». I passanti si fermano e chi ancora non sa della morte di Biagi, appresa la notizia, porta le mani alla bocca, come si fa per una perdita, che sebbene attesa, coglie all'improvviso. «Perché con lui se ne va un pezzo di libertà di questo paese» dice Mimmo che ogni sera nel suo bar di via Farini accendeva «il televisore solo per vedere Il Fatto».

Il caso vuole che i cronisti presenti siano quasi tutti giovanissimi, la «nuova generazione»del giornalismo italiano. Tutti lì con la consapevolezza che un altro modello, forse l'ultimo, se ne è andato. Da oggi sono un po' più soli, come più sola è la notizia. E a loro la figlia Bice rivolge un invito: «Come diceva mio padre, non mettetevi mai nel ruolo di protagonista, siate curiosi, non giudicate e ricordate che con le parole si può fare molto male». Ma oggi a fare male è solo la sua scomparsa.

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