Il viaggio in Italia di Biagi è finito (momentaneamente) in una clinica milanese. A 87 anni. Continuerà, anche senza di lui, se molti raccoglieranno il suo testimone. Cioè, faranno semplicemente il loro mestiere. Non solo nel giornalismo. In tutte le professioni. Orgogliosi di fare il proprio lavoro ( «ci divertiamo e ci pagano pure», diceva). Con passione, curiosità, rispetto delle persone, dei fatti, della verità. E, soprattutto, se non smetteranno di farsi e di porre domande.
Biagi non ha mai rivolto un interrogativo aggressivo a nessuno. Nemmeno agli uomini di potere che nella sua lunga vita gli hanno tagliato la strada o si sono irritati per i suoi scritti. Ma non ha mai accettato che vi fossero delle domande inopportune, o peggio proibite. La sua lezione di giornalismo (e di libertà) sta tutta qui. «Nella mia vita avrò certo fatto molti errori – ammetteva – ma una cosa è sicura: non li ho mai fatti per conto terzi». Aveva le sue opinioni. Come tutti. Non le nascondeva.
Ma non le ha mai an-teposte ai fatti che voleva constatare di persona, con il taccuino in mano e gli occhi aperti di chi non ha pregiudizi e sa andare, quando è necessario, controcorrente (ricordate il caso Tortora?). Intervistò tutti i potenti e li trattò come la gente comune. Deciso e umile nello stesso tempo. Il colloquio che gli rimase più impresso fu quello con Albert Sabin, lo scopritore del vaccino contro la poliomelite. Quello che sui giornali non apparve mai un'intervista a Giovanni Paolo II. Che cosa gli avresti chiesto Enzo? «Gli avrei detto: Santità, ma lei è stato mai innamorato?» Non esistono domande proibite.
