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Il Mastella cattolico lascia un governo che non tutela il Papa

di Stefano Folli

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21 gennaio 2008


Mastella ha aperto la crisi di governo persino in anticipo sui tempi. Era sembrato dubbioso, dopo le sue dimissioni da ministro della Giustizia: aveva preso tempo affermando di volersi "dedicare alla famiglia". Invece ha deciso in poche ore dopo che il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, aveva rivolto al governo Prodi un'intemerata forse senza precedenti, relativa alle responsabilità di chi (il ministro degli Interni Amato, tra le righe) avrebbe sconsigliato al Papa la visita alla Sapienza.
Sarà una coincidenza, ma subito dopo Mastella ha annunciato l'uscita dalla maggioranza. Non si sfugge all'impressione di una scelta dovuta a ragioni personali, ossia la crisi del suo partito-famiglia. Una mossa dettata da esasperazione, da parte di chi non cerca più ragioni per "stare insieme", ma soli motivi per rompere. E tuttavia non si esclude affatto che l'ex ministro abbia abbandonato Prodi per un preciso calcolo politico. In cui rientra anche la crisi fra Chiesa e Stato che a lui, cattolico dichiarato, sembra un'ottima occasione per prendere le distanze da un governo che non sa tutelare il Papa.
C'è dell'altro, naturalmente. L'ostilità al Partito Democratico e alla sua riforma elettorale che uccide i "piccoli". Il timore del referendum. Forse una prima intesa con Berlusconi per un proficuo cambio di campo in vista del voto anticipato.
Ma è da qui che ora bisogna partire. Il capo dello Stato ha detto più volte di non voler riportare il Paese alle urne se prima non sarà approvata la riforma elettorale. In più si è creata una situazione drammatica sui mercati internazionali con gravi rischi di recessione, non solo in America. Il buon senso farebbe propendere per un Governo di transizione in grado di prendere alcuni provvedimenti fondamentali di cui l'Italia ha bisogno con urgenza. Per ottenere questo risultato è indispensabile che anche il presidente del Consiglio dia il suo apporto. Forse non è saggio pretendere un voto di sfiducia delle Camere. Dimissioni più "soft", tali da non lacerare ancora di più il tessuto dei rapporti politici e istituzionali, potrebbe essere la scelta giusta e opportuna.

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