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ANALISI / L'Italia in eterno declino nei pregiudizi stranieri

di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis

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2 gennaio 2008

Il 2007 si è chiuso non solo con la notizia del sorpasso spagnolo sull'Italia (notizia peraltro contestata ieri dal premier Romano Prodi), ma anche con un crescendo di stroncature del nostro Paese da parte della stampa anglosassone paragonabile a quello del 2005, quando l' Economist aveva raffigurato sulla sua copertina la Penisola sorretta dalle stampelle. Perché tanta insistenza?
Ci sono due fattori che spiegano questi giudizi. Il primo è la obiettiva debolezza del nostro sistema Paese generata dalla politica con le sue litigiose instabilità, dalla burocrazia che non funziona, dal perdurante divario tra il Nord e un Sud dove lo Stato non riesce ad imporsi alla malavita. Il secondo è la superficialità delle inchieste e delle opinioni della stampa anglosassone che non si sforza di distinguere stati d'animo generali riferiti al sistema Paese da dati di fatto specifici relativi al sistema economico.
Non serve imbarcarsi in ritorsioni verbali, magari richiamando i recenti disastri della Northern Rock e le incoerenti decisioni del Governatore della Banca d'Inghilterra Mervyn King. Né bisogna giudicare il Regno Unito come un Paese in panne sulla base del fatto che nel 2006 l'export sembra essere stato "gonfiato" di ben 23 miliardi di sterline (32 miliardi di euro) per un illecito meccanismo di partite di giro costruito da alcune società di trading per evadere l'Iva (soprattutto su telefonini e componenti per computer) con danni per il fisco inglese ed errori nei dati di contabilità nazionale.
Come economisti non condividiamo però le inchieste come quelle di Economist, Financial Times e Times (a cui si è recentemente aggiunto dall'America anche il New York Times), che negli ultimi due anni hanno ripetutamente preso di mira il nostro Paese ed in particolare la nostra economia, giudicandoci sommariamente come una nazione condannata al declino.
Il 22 dicembre, ad esempio, il Times ha citato tra i numeri "cattivi" dell'Italia due dati: che siamo solo ventesimi nella classifica dello Human Development Index delle Nazioni Unite, quattro posti dietro la Gran Bretagna; e che il nostro tasso di disoccupazione è del 7%, dunque più alto - viene fatto notare - di quello di ben 76 Paesi del mondo tra cui la Nigeria e la Cambogia. L'assurdità di quest'ultimo paragone non merita replica (anche perché l'Italia ha un tasso di disoccupazione più basso di Francia e Germania), mentre per la debolezza del primo basti ricordare che la stampa inglese contraddice anche se stessa. Infatti non più tardi del 5 settembre scorso l'Economist poneva l'Italia all'ottavo posto assoluto nella classifica del suo Quality of Life Index, dietro soltanto a Irlanda, Svizzera, Lussemburgo, a tre Paesi scandinavi e all'Australia, mentre la Gran Bretagna figurava solo al 29°.
Queste critiche si sono incrociate con l'arrembante entusiasmo del premier spagnolo Zapatero, che non ha nascosto nasconde la sua soddifsazione dopo che il Pil pro capite del suo Paese nel 2006 ha superato, secondo i dati Eurostat a parità di potere di acquisto, quello dell'Italia. Il Times è arrivato a prevedere che, in termini di reddito per abitante, finiremo presto superati anche dalla Grecia.
Pur non essendo affatto soddisfatti dell'andamento dell'economia italiana dobbiamo però rilevare che la forza delle nostre imprese del settore manifatturiero è ben più marcata di quella delle imprese spagnole e inglesi. Da ciò discende che le regioni industriali italiane godono di un livello di benessere molto alto che, purtroppo, declina nella media nazionale a causa delle regioni dove non c'è manifattura e dove la grande risorsa del turismo rimane un potenziale non utilizzato. Bastano a dimostralo alcuni dati.
Se consideriamo i Pil pro capite a parità di potere di acquisto di Italia, Regno Unito e Spagna, disaggregati anche a livello regionale, la situazione nel 2004 era la seguente:
- il Nord Ovest e il Nord Est dell'Italia hanno un valore pro capite nettamente superiore a quello della Gran Bretagna che eguaglia invece il Centro Italia;
- il Nord Italia presenta un Pil per abitante di circa mille euro superiore a quello dell'Inghilterra più "ricca" (cioè il Regno Unito meno Galles, Scozia e Irlanda del Nord) e addirittura di 6.350 euro più alto di quello della Spagna;
- lo stesso Centro Italia ha un Pil pro capite di 4.440 euro più elevato di quello della Spagna.
La media nazionale italiana si abbassa a causa del Mezzogiorno che purtroppo ha un prodotto interno per abitante inferiore di 860 euro a quello del Portogallo. C'è da chiedersi, comunque, se le cifre ufficiali riescano a catturare effettivamente il sommerso del Sud.
Consideriamo ora l'export, il più nitido indicatore di competitività. Nei primi nove mesi del 2007 la bilancia commerciale comparata dei tre Paesi analizzati è stata la seguente: Italia -7,7 miliardi di euro; Regno Unito -91; Spagna -67,2. Ma, se consideriamo il commercio estero al netto dei minerali energetici, nel periodo gennaio-settembre 2007 l'Italia ha presentato uno straordinario surplus di 28,8 miliardi, mentre la Gran Bretagna senza petrolio è risultata in "rosso" per più di 60 miliardi di sterline (circa 85 miliardi di euro).
Ma c'è di più: nei primi 9 mesi del 2007 il Nord-Centro ha esportato grosso modo quanto l'intero Regno Unito (230 miliardi di euro contro 232 miliardi), mentre il Nord da solo ha esportato 59 miliardi di euro in più della Spagna (189 miliardi contro 130).
Ciò detto, noi ammiriamo il Regno Unito per la snellezza della sua burocrazia, per il civismo della sua popolazione, per l'efficienza della sua giustizia, per la rilevanza di Londra nella finanza mondiale. Ma nel contempo ci piacerebbe che i giornali inglesi riconoscessero all'Italia una capacità imprenditoriale e innovativa che ha fatto scuola nel mondo in vari settori. Così ammiriamo la stabilità dei Governi spagnoli, la continuità delle politiche economiche pur nella alternanza dei Governi stessi, la capacità della Madrid di collocare sue personalità ai vertici di organismi europei ed internazionali. Ma non possiamo dimenticare che il differenziale di reddito totale tra Italia e Spagna è pari a oltre 560 miliardi di euro (dati del 2006 a prezzi correnti) e che la manifattura spagnola è ben poca cosa a fronte di quella italiana. Solo nel turismo siamo stati superati, ancorché non surclassati.
Se la politica-partitica trovasse in Italia una capacità innovativa almeno pari a quella che dimostrano le imprese, magari con un Governo bipolare che durasse cinque anni per fare vere riforme strutturali, per ridimensionare la spesa pubblica burocratica, per riportare alla legalità alcune regioni, allora il nostro Paese potrebbe ritornare ai vertici delle classifiche mondiali anche per livello complessivo di civiltà.

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