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Imprese e professioni, le scelte per il Paese

di Ferruccio de Bortoli

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16 Febbraio 2008

I programmi non sono ancora noti. Oggi Veltroni svelerà il suo. Berlusconi lo farà all'inizio della prossima settimana. Le prime idee si sono concentrate, ed era comprensibile vista la crisi dei consumi, sugli effetti del caro mutui e le disavventure dei mercati finanziari, sul potere d'acquisto di salari e stipendi e sul sostegno al reddito delle famiglie. Bene. Come ha scritto Alberto Orioli ieri sul Sole 24 Ore, il costo stimato delle promesse dei primi giorni di campagna elettorale supera, per ognuno dei due schieramenti, i dieci miliardi e poco o nulla si sa sui possibili risparmi dal lato della spesa pubblica. Se il tono pacato del confronto è da applaudire, sarebbe oltremodo apprezzabile che si indicasse, anche in ossequio all'articolo 81 della Costituzione, come finanziare salari minimi, riduzione dell'Ici, detassazione di straordinari e tredicesime. Anche perché il percorso virtuoso di un'economia moderna è il seguente. L'impresa è competitiva e sta sui mercati internazionali se investe, innova e il lavoro è più produttivo. L'economia cresce. E così salari reali e stipendi. Il semplice adeguamento di questi ultimi, senza recuperi di produttività delle imprese e del sistema, rende l'operazione nel medio periodo velleitaria ed effimera.

L'auspicio è quello che, nella rincorsa al consenso, non si perda la necessaria attenzione al cuore produttivo e sociale del nostro Paese, costituito dalle imprese, in particolare le piccole, gli autonomi e i professionisti. Una generazione pro-pro (produttori e professionisti) che racchiude un universo di eccellenze, disseminato nel territorio, al quale vanno riconosciuti due principali meriti. Il primo è visibile nel valore aggiunto che ogni giorno si crea e compensa inefficienze pubbliche e distorsioni di mercato e della concorrenza. Il secondo è di natura civile e largamente misconosciuto. In una società che tende disgregarsi e a perdere la nozione di cittadinanza, la rete delle piccole imprese, degli autonomi e professionisti è investita da responsabilità sociali un tempo impensabili. Se l'immigrazione può essere più ordinata e virtuosa, il senso di comunità ravvivato da nuovi legami, la trasmissione di saperi, anche manuali, più sicura e orgogliosa, lo dobbiamo e lo dovremo sempre di più a questa generazione pro-pro. Che fa, investe, innova, studia.

Ed è ben rappresentata nell'ultimo libro di Aldo Bonomi (Milano al tempo delle moltitudini, Mondadori), analisi originale sulla frammentazione socioeconomica delle capitali industriali postfordiste. Un mondo non privo di difetti ma che quando eccelle naviga, e bene, nel mare aperto dei mercati. Non aspetta e non si protegge. E non dovrebbe avere nemmeno paura delle liberalizzazioni (a patto che si facciano con le categorie e non, come è accaduto, contro).
Che cos'hanno da dire a questa parte preziosa e ramificata dell'economia italiana i partiti e le coalizioni che si confronteranno il 13 aprile? Il centrodestra appare in vantaggio perché in gran parte si tratta del suo elettorato tradizionale, ma commetterebbe un grave errore se lo considerasse acquisito di diritto. Ci vogliono idee nuove e coraggio. La riduzione delle tasse è importante, ma non decisiva, visto che la promette anche la parte avversa. Il centrosinistra, meglio il Partito democratico, deve rimontare anni di errori e deviazioni ideologiche. E tentare di colmare almeno in parte una siderale distanza che lo separa, quasi antropologicamente, dall'impresa e dalle professioni descritta con efficacia nel libro di Marco Alfieri (Nord, terra ostile, perché la sinistra non vince, Marsilio), catalogo impietoso di come l'Unione non sia riuscita, nonostante una serie di provvedimenti favorevoli, e per certi versi persino superiori a quelli della legislatura precedente, a stabilire un dialogo con la piccola impresa, i lavoratori autonomi, l'universo composito delle professioni. È la sfida più ardua che ha davanti Veltroni. Vedremo.

La piccola impresa chiede attenzione e vuole essere riconosciuta per il ruolo autentico che svolge in un'economia come quella italiana. Lo scrivevamo anche nel Manifesto per le piccole imprese, lanciato dal Sole 24 Ore il 23 luglio del 2006. Sono soggetti sociali delicati e sensibili, non possono sentirsi sottorappresentati o sviliti in una cittadinanza minore. Aspirano a crescere ed entrare in quel campione di quattromila medie aziende, leader in molti segmenti di mercato, che il rapporto Mediobanca-Unioncamere (si veda a pagina 13) sottolinea nella sua vitalità e nel suo straordinario dinamismo. Il declino qui non c'è, tutt'altro. Ma la politica non può distrarsi o stare con le mani in mano. In Italia ci sono 4,4 milioni di imprese, il 95 per cento ha meno di dieci addetti. E la metà di queste ha un solo addetto: il titolare. Sono imprese e famiglie insieme. Una si confonde nell'altra.

Che cosa chiedono piccole imprese, autonomi, professionisti, la generazione pro-pro? Prima di tutto infrastrutture moderne e una maggiore efficienza della pubblica amministrazione. I costi amministrativi continuano a essere troppo elevati rispetto alla media degli altri Paesi. Le promesse di razionalizzazione sono state per ora disattese (un esempio: la comunicazione unica per l'avvio delle attività). Il titolare di una piccola impresa è spesso schiavo di una burocrazia invadente o di un federalismo distorto. In balia di ritardi cronici nei pagamenti della pubblica amministrazione, incerto su quali enti siano competenti in materie sensibili, come per l'indispensabile sicurezza sul lavoro. Se da un lato va riconosciuto che nell'ultima Finanziaria del Governo Prodi un significativo passo avanti è stato fatto in termini di semplificazione, oltre che di riduzione del cuneo contributivo, dall'altro non si può non notare che il regime dei minimi, pur positivo, ha modalità interpretative che spesso ne scoraggiano l'adesione. Le responsabilità a carico di imprese e professionisti (certificazione dei bilanci, legge 231) sono aumentate in molti settori con aggravi sensibili dei costi. Qualcosa è stato fatto per ridurre l'aliquota complessiva delle imprese di capitali. Ma quella attuale, al 31,4%, tra Ires e Irap, è sottostimata perché non tiene conto dell'allargamento della base imponibile. E continua a essere molto più elevata della media europea (sotto il 25% per l'Europa a 27).

La lotta all'evasione fiscale è necessaria. E da proseguire con rigore, ma senza caccia alle streghe. Toni da giustizialismo fiscale non giovano a nessuno, anzi finiscono per dare argomenti insperati ai furbi a danno degli onesti. Meno regole e più chiare (gli studi di settore sono oltre 200 per 600 attività, una giungla). Basta con gli interventi retroattivi. Ma soprattutto è necessaria una maggiore stabilità del sistema fiscale. Non si può cambiare tutto a ogni legislatura, per giunta breve. Sull'Irap poi, come ha scritto Raffaele Rizzardi, si potrebbe avviare, dopo aver scongiurato una censura della Corte di giustizia Ue, una manutenzione intelligente con l'esclusione delle piccolissime attività e dei professionisti senza organizzazione.

Sono solo alcune idee, tra le tante, che potrebbero dare la sensazione a questo cuore pulsante dell'economia italiana che la campagna elettorale non li vedrà in secondo piano come spesso è accaduto nella storia tormentata del Paese.

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