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Pensioni-lavoro, vicino il ritorno al cumulo

di Davide Colombo

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16 Maggio 2008

Continuità finché è possibile, discontinuità quando diventa necessario. Per ora si può riassumere così la linea di politica previdenziale annunciata dal nuovo ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Il quale, nelle prime dichiarazioni rese dopo l'insediamento, s'è limitato a soggiungere che non verranno ritoccate le regole per l'età pensionabile (dal 1° gennaio bisogna aver compiuto 58 anni per il ritiro con 35 anni di contributi) mentre verrà perseguito in ogni modo l'obiettivo dell'allungamento della vita lavorativa.
In questa prospettiva, uno dei provvedimenti che potrebbe essere adottato riguarda l'abolizione del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro (sia esso autonomo o legato a un nuovo contratto). Una misura di continuità con la legge 247/2007 («l'onerosa controriforma che abbiamo ereditato» come la chiama il ministro) e insieme di razionalizzazione della normativa che si è succeduta dal 1994 al 2004 su questa materia. L'ipotesi è già stata esaminata dai tecnici del ministero nella fase di stesura delle norme che hanno recepito il Protocollo Welfare. Ma poi non è arrivata in porto. Si prevede un innalzamento graduale dei limiti per l'abolizione totale del cumulo delle pensioni di anzianità superando il tetto attuale: 58 anni con 37 di versamenti.
La nuova armonizzazione (riassunta nella tabella che pubblichiamo qui a fianco) consentirebbe di accompagnare i nuovi requisiti di età per il pensionamento introdotto dalla riforma Damiano-Prodi con l'abolizione progressiva del cumulo. Ne conseguirebbe, nel caso di un lavoratore dipendente con 59 anni di età e 37 di versamenti, la totale cumulabilità di nuovo reddito e pensione a partire dal gennaio 2008, per arrivare a 62 anni di età e 38 di anzianità contributiva del 2013. Il divieto totale di cumulo tra pensione di anzianità e reddito da lavoro, secondo questa ipotesi, rimarrebbe fino a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini solo per le categorie che potranno anticipare l'età di pensionamento (i lavoratori addetti a mansioni usuranti definiti nella delega ora all'esame delle Camere).
Ma quanto costa questo intervento? Sulla base dei bilanci Inps degli ultimi tre anni e delle previsioni per il 2008 i proventi risultanti dal divieto di cumulo hanno oscillato tra i 285 milioni di euro del 2005 e i 297 milioni previsti per quest'anno. In pratica, secondo i calcoli del ministero che trovano conferma anche presso il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, la completa abolizione del divieto di cumulo tra pensioni e reddito da lavoro comporterebbe, per l'Inps, 300 milioni di mancate entrate annue. Un onere che scenderebbe a 220 milioni ipotizzando maggiori entrate fiscali per lo Stato generate dal nuovo reddito da lavoro (la stima è di un gettito di 80 milioni l'anno prendendo come riferimento una tassazione con aliquota marginale del 27%).
Sulla totale abolizione del divieto di cumulo restano le perplessità della Ragioneria generale dello Stato. Le stesse già espresse nel 2004, quando i tecnici che lavorarono alla riforma Maroni l'avevano già proposta. Secondo la Ragioneria se è vero che la misura non comporta sulla carta oneri insormontabili, rischia tuttavia di incidere sulla cosiddetta «propensione al pensionamento» dei lavoratori. Una volta certa la completa cumulabilità – è il ragionamento - in molti si ritirerebbero appena possibile per poi cumulare pensione e nuovo reddito da lavoro, con conseguenze difficili da calcolare sulla spesa previdenziale. Una posizione «conservativa» secondo Alberto Brambilla, esperto di previdenza vicino alla Lega ed ex sottosegretario al Welfare: «Io ero e resto totalmente favorevole alla abolizione del divieto di cumulo – spiega Brambilla – perché è una misura che allunga la vita lavorativa e rende possibile l'emersione di molto lavoro nero». La totale cumulabilità di pensioni e reddito da lavoro, secondo Brambilla, «fa il paio con la detassazione degli straordinari che presto verrà varata dal Governo e può consentire a ogni lavoratore, senza più limiti, di scegliere con flessibilità come difendere il proprio reddito dopo la pensione».

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