E' probabile che il trattamento punitivo riservato all'università dalla manovra d'estate intenda spingere il sistema a riflettere in modo concreto su come riformarsi, smettendo di eludere criticità innegabili e ripetuti segnali, anche bipartisan. Almeno dal 2002 il Tesoro ha preso di mira il turnover e la riduzione degli scatti stipendiali era già stata in parte compiuta con la Finanziaria 2006. Sia il primo Dpef firmato Padoa Schioppa sia il Rapporto Muraro insistevano sulla necessità di riqualificare la spesa, senza attendersi una crescita degli stanziamenti complessivi, anzi il contrario.
Il tempo passa, i Governi cambiano, ma i problemi di fondo restano gli stessi.
Per risolverli, però, non basta la politica della lesina. Il Governo, il Paese, gli universitari devono prendere atto che la crisi investe il nostro modello di università nel suo complesso. È in crisi un modello ancora fortissimamente centralistico, in cui l'autonomia è imperfetta, incompiuta e, in fondo, mai accettata del tutto. È in crisi la figura del docentefunzionario la cui carriera è regolata da leggi e decreti e il cui stipendio, rimesso al Parlamento, si basa su ruolo e anzianità. È in crisi un sistema in cui più di un terzo degli accademici non ha né il diritto né il dovere di insegnare, solo perché i ricercatori sono nati come versione politicamente corretta dei vecchi assistenti senza mai divenire, agli occhi della legge, studiosi e insegnanti autonomi in una fase iniziale di carriera.
Si potrebbe continuare elencando anacronismi e assurdità non meno cospicui: finanziamenti basati solo sui numeri e non sulla qualità e quasi del tutto assorbiti dagli stipendi; meccanismi di governo lontani anni luce dalle esigenze dell'università contemporanea; un sistema di reclutamento tanto perverso da essere unico al mondo...
È giunto il momento di offrire alle università e agli universitari scelte coraggiose e limpide, non una congerie di leggi e leggine. Si prospetti alle prime un'autonomia vera, all'interno di un rinnovato senso di servizio pubblico. E si proponga ai docenti un nuovo regime contrattuale, moderno, meritocratico, ricco di incentivi e di sfide, che li sottragga a un declino di immagine e di professionalità estenuante. Un punto, soprattutto, deve essere chiaro: non ci sono scorciatoie. Lasciar libere le università di trasformarsi in fondazioni senza stipulare nuovi patti con i docenti serve solo a creare gusci vuoti, con buona pace sia di chi ama che di chi avversa l'idea. Pensare a un rinnovamento radicale dello stato giuridico impone di accelerare non rallentare il turnover, come viene invece ora imposto. Bene ha fatto la VII Commissione della Camera a proporre di escludere dal blocco i ricercatori, ma dobbiamo in ogni caso allinearci in fretta, almeno in parte, con la prassi internazionale e fissare la pensione a 70 anni, come peraltro era già stato deciso nel 1980. Inutile stupirsi, altrimenti, se a vincere un posto di ricercatore sono studiosi che, dopo un lungo sfruttamento sottopagato, sfiorano la quarantina. Il ministro Gelmini insiste giustamente su ringiovanimento, meritocrazia e valutazione. Si sarà ormai accorta che a molti, a destra come a sinistra, queste parole piacciono solo come slogan, non certo come programma. Ne è prova proprio in questi giorni l'ennesima tentazione di un accordo trasversale per reintrodurre nei concorsi il meccanismo del doppio idoneo contro cui si sono schierati invano l'attuale ministro e i suoi due predecessori, e che, indifendibile prima, diventa paradossale oggi a fronte di un turnover ridotto al lumicino. Bisogna uscire dal pantano: è possibile farlo solo con proposte coraggiose e radicali, che restituiscano alle università e a chi in esse lavora il gusto della libertà e della responsabilità.