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Quando i cinque erano un invito al pentimento

di Elisabetta Rasy

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29 agosto 2008

Anche in un liceo di salda ispirazione democratica e dialogante com'era il mio, il romano liceo Tasso alla metà degli anni Sessanta, i voti appartenevano più che al mondo dei semplici numeri a una segreta e diplomatica alchimia. Mi spiego: a una studentessa in genere preparata ma soggetta a cicliche fasi di svogliatezza, com'ero io, un cinque e tanto più un quattro non equivalevano al cinque a al quattro di un irriducibile dell'impreparazione, vale a dire quello che con brutale terminologia, che all'epoca nessuno contestava, si definiva un somaro.

In casi come il mio, il quattro o il cinque equivaleva a un avvertimento, a una ammonizione e soprattutto a un invito a pentirmi. I voti, insomma, non erano affatto cifre aride, o numeri pr êt-à-porter, i professori si comportavano nel darli come raffinati stilisti, attenti alla corporatura e fisionomia del cliente, e gli studenti, benché sempre un po' attoniti di fronte ai segreti di quella numerazione, si ingegnavano a decifrarli. Per esempio: che cosa divideva un semplice cinque da un cinque meno meno, con i due trattini calcati bene dalla penna o dall'indimenticabile matita rossa, e soprattutto che cosa aveva un cinque meno meno più di un quattro? Inutile fare troppi conti: quei due trattini erano la vista sull'abisso della retrocessione.

Ma grazie al valore sintetico dei numeri, tutto era velocissimo, e non c'era l'oltraggio delle parole. Insomma, retrospettivamente mi pare che i voti non fossero umilianti, ed essendo appunto soltanto numeri non erano neppure eccessivamente scoraggianti. Anche se la risalita non era sempre facile. Sto al mio caso: io ero una tipica "bestia da esami" o semplicemente animale dell'ultimo trimestre. Nella pagella del primo poteva capitare che accanto ai sette e qualche volta agli otto nelle materie per così dire più intellettuali, l'italiano o la storia, ci fossero degli eloquenti quattro in greco o in scienze o in matematica. A quel punto era indispensabile cambiare la numerazione nella testa dell'insegnante prima ancora che sul registro, ci voleva insomma impegno e astuzia. Ma, ripeto, essendo questione di numeri e non di un giudizio formulato a parole, quel cambiamento era meno arduo. Le parole ti inchiodano a una valutazione che stinge fatalmente sulla morale o sull'ambiguità. Il voto era invece un faccia a faccia con la realtà. Una cosa è dire a qualcuno che è insufficiente, un'altra dargli quattro. I numeri sono metamorfici e un po' magici, le parole molto meno. Inoltre i numeri avevano un loro particolare alone, l'alone dell'innocenza. Con i quattro eravamo tutti solidali, era solo l'implacabile crudeltà delle cifre, niente di personale. (Invece era difficile solidarizzare con un nove o con l'allora rarissimo, forse inesistente, dieci - memoria sbiadita delle elementari).

Credo di non aver mai preso più di un otto, nei miei momenti migliori, e non ho mai aspirato ad avere di più - per non passare, secondo la mia visione adolescenziale del mondo, nella cerchia un po' imbarazzante dei secchioni e dei perfetti. Ma il mio voto standard e anche il mio voto preferito, salvo non infrequenti cadute, era il sette. Perché il voto, sempre per il valore magico dei numeri, poteva anche diventare una fisionomia interiore, o la temperatura del nostro rapporto con il mondo. Il sette mi sembrava alludesse a un clima temperato. Inoltre i numeri riservavano sorprese: ricordo come un responso dell'I Ching l'imprevista sequenza dei voti sui tabelloni della maturità: otto nelle materie scientifiche, sette in quelle letterarie. Dopo un po' di incertezza ho seguito la strada dei sette, senza troppi pentimenti.

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