Arriva puntuale anche quest'anno, alla vigilia della riapertura delle scuole, un decreto legge con nuove norme in materia, o meglio con un ritorno a norme a suo tempo dismesse: ricompaiono infatti in scena l'insegnamento dell'educazione civica, il voto di condotta e i voti numerici accanto ai giudizi.
L'educazione civica, inserita nel complesso degli insegnamenti storico-geografici, viene ora riformulata come acquisizione di competenze dirette alla «Convivenza civile e cittadinanza». Si tratta senza dubbio di un recupero importante, soprattutto in un sistema scolastico che conta ormai quasi mezzo milione di studenti che non sono nati in Italia, oltre a molti milioni di italiani che potranno trarre giovamento non minore da una conoscenza diretta dei principi costituzionali e della loro concreta applicazione nella società.
In questo contesto il voto di condotta diventa quindi la verifica pratica della validità dell'insegnamento impartito, configurando il comportamento degli studenti a scuola come primo e fondamentale banco di prova dell'educazione alla convivenza civile. Il decreto stabilisce che nei «casi più gravi» una valutazione collegiale negativa comporti la non ammissione all'anno successivo o all'esame di licenza media, ovvero la perdita di cinque punti in quello di maturità: misure certamente forti, e da maneggiare con criterio, ma le uniche che permettono di affrontare la deriva del bullismo o le follie stile YouTube. Poiché il Governo precedente aveva reintrodotto il giudizio di ammissione per l'accesso all'esame di terza media, e riportato i commissari esterni nelle commissioni di maturità, si deve registrare una positiva continuità nel rivalutare aspetti del processo educativo troppo frettolosamente abbandonati. E le reazioni ai primi annunci delle misure deliberate ieri indicano una convergenza diffusa su principi ispirati a un pragmatismo sensato.
Si tratta ora di estendere i cambiamenti alla sostanza degli insegnamenti impartiti. Reagire scandalizzati quando viene constatato un forte divario di preparazione tra studenti del Nord e del Sud non cancella la realtà dei numeri, che attesta variazioni inaccettabili tra diverse aree del Paese.
Anche in questo caso serve a poco prendersela con i parametri di riferimento o i metodi di rilevazione, uno sport nazionale che maschera un'insofferenza di fondo per la valutazione, e decanta la retorica dei giudizi narrativi rispetto all'asciuttezza dei voti. I test Pisa e i risultati che ne conseguono non sono Vangelo, ma hanno un indubbio valore diagnostico, e l'Ocse ha da poco annunciato che intende mettere a punto test simili anche per valutare la preparazione a livello universitario.
Il diffondersi della valutazione ex post implica una rivoluzione concettuale profonda per un sistema educativo, come il nostro, in cui la legittimazione discende normalmente dall'alto, a priori, sotto forma di valore legale dei titoli di studio o di autorizzazione concessa a istituti privati. In un mondo più fluido e mobile diventa necessario disporre di titoli in grado di certificare competenze effettive, non il semplice completamento di un percorso, e, in parallelo, rafforzare l'accertamento delle competenze in ingresso, soprattutto all'università. Forse i tempi sono finalmente maturi per rimettere in discussione una delle "conquiste" peggiori del lassismo culturale bipartisan degli ultimi decenni, l'accesso ai corsi universitari svincolato da qualunque criterio di propedeuticità, cui in Italia fa da controparte una fortissima restrizione concentrata su pochi corsi a numero chiuso. Per soddisfare le legittime esigenze degli studenti che vogliono cambiare indirizzo rispetto agli studi superiori si devono offrire classi preparatorie che consentano di integrare le conoscenze necessarie. Lasciar tutti liberi di gettarsi in qualunque curriculum senza la preparazione necessaria aiuta solo a far ingrossare le fila degli abbandoni e dei fuori corso, senza contribuire in alcun modo alla mobilità culturale e sociale.