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La tragedia e le polemiche della Thyssen emozionano il Festival di Venezia

di Boris Sollazzo

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5 settembre 2008

Il cinema del lavoro è tornato, almeno da un paio d'anni. Parole sante di Ascanio Celestini, Le pere di Adamo di Guido Chiesa e i lungometraggi di finzione Cover Boy di Carmine Amoroso e Tutta la vita davanti di Paolo Virzì hanno aperto una finestra sul mondo del precariato senza regole ed etica. Morire di lavoro di Daniele Segre è andato nei cantieri edili a raccogliere testimonianze sconvolgenti.
Ora qui a Venezia arrivano, nello stesso giorno in cui il presidente Napoletano benedice questa tendenza chiedendo, come fa da tempi non sospetti, di abbattere i rischi sul posto di lavoro, arrivano altre tre opere sul lavoro. Il primo è un documentario di Silvio Soldini (su commissione), evento speciale delle Giornate degli Autori. Un paese diverso, titolo speranzoso e illuminante, esplora la vita, la struttura e la forza di una rete lavorativa ed economica come quella delle Coop, che rappresenta un unicum italiano, da qualche tempo in disgrazia mediatica, soprattutto per alcune scelte della sua classe dirigente.
Un po' ingessato ma interessante, è un viaggio in un insieme di organizzazioni parallele e convergenti e in un'esperienza storica. Ma a rubare la scena, giustamente, è stata la strage del 6 dicembre 2007 alla Thyssenkrupp di Torino, oggetto di un processo (si parla di 110 infrazioni) seguito dal procuratore Guariniello e ricordata da ben due film: La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti e Thyssenkrupp Blues di Monica Repetto e Pietro Balla.
Nel primo, con uno stile televisivo ed empatico, per non dire strappalacrime, si racconta il dopo tragedia. Mimmo Calopresti – un po' troppo in scena – incontra amici, colleghi e parenti, dopo aver dato un assaggio delle storie e delle speranze delle sette vittime con una serie di veloci scene-monologhi di fiction: a interpretarle Silvio Orlando, Rosalia Porcaro, Luca Lionello, Monica Guerritore, Vincenzo Russo, Giuseppe Zeno e Valeria Golino, i cui compensi sono andati alle famiglie degli operai. Stile da documentario televisivo con ricostruzioni, testimonianze e uso di tutti i mezzi possibili (da Youtube al bianco e nero). «Il cinema, ce lo ha ricordato Gomorra, va nella realtà con potenza, più di qualsiasi altro mezzo», dice Calopresti, calabrese d'origine, torinese d'adozione, operaio per estrazione familiare.
Ma che non risparmia critiche ai sindacati: « Non possiamo lasciar morire la gente perché intanto ci concentriamo solo sul fatto che tra due anni ci sarà la ripresa», dice.
Diverso e forse persino complementare, ThyssenKrupp Blues di Monica Repetto e Pietro Balla (con l'aiuto fondamentale, per sensibilità e abilità, degli operatori Francesca Frigo e Andrea Parena). «Il titolo richiama volutamente – raccontano – la musica degli schiavi e il colore delle tute dei metalmeccanici». Questo lavoro, cinema della realtà nel senso più ampio del termine, ha vissuto una storia incredibile anche se, forse, non imprevedibile. Dopo un documentario per Rai3 sugli operai, i due autori hanno deciso di proseguire il viaggio e hanno scelto per farlo, ben prima del rogo, proprio la fabbrica torinese. «È stato difficile capire se continuare quando ci fu il rogo del 6 dicembre, e come». Qui la lente d'ingrandimento è sulla vita comune di questi lavoratori, un'indagine umana su tante storture e su un sistema economico, sociale e politico. Realtà in presa diretta, un film in cui persino le musiche (Battiato e De Andrè su tutti) sono quelle ascoltate dal protagonista, Carlo Marrapodi, presente anche nel lavoro di Mimmo Calopresti. Carlo è ancora provato, indignato, arrabbiato. «Qualcuno sa che se non firmo la rinuncia alla parte civile, non mi danno la liquidazione. Tv, giornali, sindacati e partiti ora dove sono?».

5 settembre 2008
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