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Tra Draghi e Tremonti serve una tregua per battere la recessione

di Orazio Carabini

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20 Novembre 2008

Nessuna Costituzione, formale o materiale, prescrive che il ministro dell'Economia e il governatore della Banca d'Italia siano «amiconi». Che giochino a tennis o che vadano in vacanza insieme. Tuttavia la freddezza che Giulio Tremonti e Mario Draghi ostentano nei loro rapporti non giova alla gestione della politica economica in un momento che più difficile di così non potrebbe essere.
Nell'officina del Governo si lavora a provvedimenti delicati come la manovra di sostegno di un'economia ormai in piena recessione. E si stanno definendo le modalità di intervento dello Stato nel capitale delle banche. Non si può sbagliare: gli errori sarebbero pagati a caro prezzo da tutti, imprese e lavoratori, ricchi e, soprattutto, poveri. L'efficacia delle misure dipende anche da come esse vengono percepite. Poiché in questa fase è inevitabile fare ampio uso di risorse pubbliche, cioè dei soldi dei contribuenti, sarà massima l'attenzione sulle scelte del Governo. E se l'opinione pubblica si accorge che il ministro e il governatore non sono allineati, la fiducia si riduce. E con essa gli effetti che i provvedimenti dovrebbero produrre.
Tremonti e Draghi sono due pezzi da novanta. E come tali sono poco disponibili a dividere con altri le luci della ribalta. Il ministro dell'Economia ha un bagaglio di idee che hanno fatto molto discutere, non solo in Italia ma anche in Europa. Può legittimamemente vantarsi di aver previsto la crisi finanziaria. Nei sondaggi risulta avere un forte consenso. Il ruolo di ponte tra il Popolo delle libertà e la Lega Nord che si è ritagliato con la complicità di Umberto Bossi gli dà un notevole peso politico. Il Financial Times probabilmente lo sottovaluta nelle sue classifiche dei ministri delle Finanze.
Il governatore non è un banchiere centrale qualunque. È conosciuto e stimato in tutto il mondo. Negli ambienti della finanza poche persone non americane hanno un prestigio paragonabile a quello di cui gode Draghi negli Stati Uniti. La sua nomina alla guida del Financial stability forum (Fsf) è il coronamento di una carriera che molto probabilmente non finirà alla Banca d'Italia.
È legittimo che due personalità forti abbiano talvolta opinioni diverse. Anche Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia del Governo Prodi, ebbe i suoi problemi con il governatore.


Tremonti ha un pregiudizio nei confronti della Banca d'Italia come istituzione che risale ai tempi della gestione Fazio. È convinto che non sappia fare la vigilanza, che non riesca a prevenire i guai, che parli sempre dopo che i fatti sono accaduti. Si arrabbia perché al Comitato per la stabilità finanziaria il governatore non porta i dati che gli erano stati chiesti. Memorabile la sua frase: «Non sono più i Governi ad avvisare le authority che sta arrivando la crisi». Per sfregio, si appoggia direttamente alle banche o all'Abi per risolvere le questioni tecniche che una volta erano competenza esclusiva di Via Nazionale. Il ministro ha anche rinfacciato a Draghi di aver lavorato per quattro anni al vertice della Goldman Sachs, una delle maggiori fabbriche di asset "tossici".
Draghi è un economista e fatica a intendersi con Tremonti. Che economista non è, e che anzi invita gli economisti a tacere. Questione di linguaggio, di cultura. Il governatore, responsabile della vigilanza, è convinto che le banche italiane siano meglio patrimonializzate delle concorrenti e che non abbiano bisogno di capitali pubblici. Ma il ministro, che pochi mesi fa le ha «castigate» con la Robin Hood tax, adesso le vuole sostenere con iniezioni di fondi dello Stato e manda segnali precisi: «I banchieri che hanno sbagliato vanno a casa o in galera». Draghi, incredibile dictu, ha sostenuto che il Governo deve allentare i cordoni del bilancio pubblico per mitigare la recessione mentre il Parlamento approvava una manovra triennale (concepita da Tremonti in giugno) mirata al pareggio e il ministro confermava l'obiettivo.
Anche l'esito del G-20 di sabato scorso non ha contribuito a rasserenare gli animi. Le proposte del Fsf, presentate da Draghi, sono state recepite dal comunicato finale del vertice. E come ha impietosamente sottolineato il Wall Street Journal tendono tutte a rendere più severi i criteri di erogazione dei prestiti da parte delle banche. Nel momento in cui si teme il credit crunch come la peste, non molti l'hanno considerata una buona notizia.
Un nuovo fronte si è aperto sulla sostituzione del vicedirettore generale della Banca d'Italia Antonio Finocchiaro, destinato alla presidenza della Covip. Draghi vorrebbe promuovere uno dei funzionari interni, ma Tremonti ha in mente un innesto dall'esterno.
E sullo sfondo resta irrisolta la questione delle azioni della Banca d'Italia detenute dalla banche che, secondo la legge, dovrebbero essere acquistate da istituzioni pubbliche entro il prossimo dicembre. Draghi, e la Bce, temono che l'autonomia della Banca centrale possa esserne compromessa, che il Governo aumenti la sua presa. E studiano soluzioni alternative.
Insomma, i motivi di attrito non mancano. Tuttavia le tensioni non vanno drammatizzate, anche perché il ricordo degli scontri tra Tremonti e Fazio è ancora vivo nella memoria. E quello che succede oggi non è paragonabile ai tristi episodi di allora. È il confronto tra due personalità forti, naturalmente portate ad avere grandi aspirazioni per il futuro. Adesso però è arrivato il momento di una tregua. Perché c'è un nemico comune da battere: si chiama recessione.

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