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Infrazioni e punti, efficacia
frenata da ricorsi e ritardi

di Maurizio Caprino

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29 Settembre 2008

Sul conto di infrazioni e tagli dei punti pesa il ritardo con cui tutto viene annotato nell'Anagrafe nazionale conducenti. Un ritardo dovuto sia alla lentezza delle procedure sia alle carenze degli uffici. E che, soprattutto, è uno dei motivi per cui l'effetto della patente a punti è inferiore a quello sperato.

Per procedere alla decurtazione è necessario che l'infrazione sia definita, cioè che la multa sia stata pagata nei termini o che l'eventuale ricorso sia stato deciso. Nel migliore dei casi, tra il momento dell'infrazione e quello della decurtazione passano i 60 giorni che il Codice della strada concede per pagare la multa senza aggravi e comunicare il nome del trasgressore, cui vanno tolti i punti. Ma questo è solo un tempo minimo teorico: può verificarsi solo quando si viene fermati al momento dell'infrazione, si vuol chiudere subito la questione e l'ufficio di polizia comunica tutto all'Anagrafe conducenti immediatamente.

Ma spesso (si pensi a quanti controlli automatici ci sono oggi) non si viene fermati e quindi vanno aggiunti almeno i 150 giorni previsti per la notifica del verbale. Inoltre, infrazioni gravi come quelle su alcol e droga comportano processi penali, con conseguente allungamento dei tempi.

All'incirca nel 5% dei casi, poi, si fa ricorso e occorre attenderne l'iter in tutti i gradi: passano altri mesi, a volte più di un anno. Con l'aggravante che non c'è un collegamento efficiente tra uffici giudiziari e forze dell'ordine, le quali conoscono l'esito del giudizio con ulteriore ritardo.

Infine, c'è il ritardo con cui gli agenti trasmettono la decurtazione all'Anagrafe conducenti: la patente a punti comporta più lavoro per i già carenti uffici verbali delle forze di polizia. Tra le carenze ci sono anche quelle di alcune Polizie municipali non ancora collegate telematicamente all'Anagrafe.

Insomma, tra la data dell'infrazione e quella della decurtazione può passare anche oltre un anno. Ne risentono le statistiche: alcune violazioni non sono state ancora registrate, altre figurano in un anno diverso da quello in cui sono state commesse.

E, soprattutto, ne risente l'effetto deterrente della patente a punti: l'articolo 126-bis del Codice della strada prevede che chi subisce una decurtazione torni a punteggio pieno se in due anni non viene più colto a commettere infrazioni che comportano la perdita di punti e il biennio di «buona condotta» si conta a partire dalla data dell'illecito e non da quella della sua registrazione (che è il momento da cui invece il taglio dei punti ha effetto). Questo significa che, se un'infrazione viene registrata – per esempio – dopo nove mesi, il trasgressore resta a punteggio ridotto solo per 15 mesi e non per due anni. Quindi il rischio di arrivare o andare vicino all'azzeramento della dote si corre per un periodo molto più breve di quello teorico.

Altro limite del sistema ai fini della deterrenza è la disciplina dei corsi di recupero, la cui frequenza consente di guadagnare sei punti (nove, nel caso degli autisti professionisti, per i quali sono previste più lezioni). Qui il problema è che non è previsto alcun esame finale. Così – come hanno dimostrato anche alcune inchieste giornalistiche – ci sono corsi in cui l'impegno dei partecipanti si limita alla mera presenza in aula (e talvolta neanche a quella, perché i registri possono essere alterati).

Per questo un anno fa nel disegno di legge sulle modifiche al Codice fu inserito l'obbligo di passare almeno un piccolo test finale. Ma le elezioni anticipate hanno cancellato tutti i disegni di legge che giacevano in Parlamento. Ora la norma è stata riproposta e nei prossimi giorni sarà vagliata in commissione alla Camera.

29 Settembre 2008
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