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La foresta cresce e non fa rumore

di Paola Branca

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27 maggio 2009

Avrà circa otto anni. È una bella bambina un po' paffuta e sorprendentemente tranquilla, nonostante sia ormai tardo pomeriggio, e c'è da scommettere che avrebbe voglia di andare a correre e a giocare in giardino. Invece è ancora in aula. Sta aiutando la mamma a compilare il modulo per chiedere l'iscrizione al corso di linguae cultura d'origine che si terrà una volta alla settimana nella sua scuola, per lei e per gli altri arabofoni (ma ci sarà anche qualche italiano tra i frequentanti, e non necessariamente solo figli di coppie miste, oltre all'analogo programma per il cinese).

Siamo tra via Padova e viale Monza, nella zona nordest di Milano, dove si sta concentrando un notevole numero di immigra-ti, anche sudamericani e di molte altre provenienze. I problemi non mancano, soprattutto la sera del venerdì e del sabato, quando molti alzano il gomito (una volta tanto i responsabili non sono musulmani) e come minimo il mattino dopo si devono fare i conti con un'incredibile quantità di bottiglie, spesso rotte, disseminate ovunque, se non c'è addirittura stata qualche rissa tra ubriachi.
Mi chiedo un po' perplesso quale debba essere considerata la lingua madre di questa bambina, dato che la madre mi pare sia straniera ma non certo araba, e le chiedo: «Quante lingue sai?».
Risponde pacifica: «Cinque: papà è egiziano, mamma romena, io sono italiana e a scuola studio l'inglese e lo spagnolo». Non le chiedo ovviamente di che religione sia – i corsi hanno volutamente sia docenti sia allievi di qualsiasi credo – ma la mamma porta un foulard: probabilmente si è convertita all'islam per compiacere il marito, oppure per convinzione... Altre non lo hanno fatto e i figli imparano a rispettare e forse a seguire in qualche forma le fedi di entrambi i genitori.
Anche questa è l'Italia multiculturale, in cui i giovani che pur restano musulmani condividono molti aspetti tipici della nostra mentalità. Si stanno mobilitando contro i matrimoni forzati, come nel resto d'Europa. Se osano sollevare il problema a livello pubblico è perché nelle famiglie lo stanno già superando: non sempre e non tutti, ovviamente, ma è una realtà che non andrebbe trascurata.

È questo che ha consentito la nascita di Yalla Italia! (Dai, andiamo Italia!), supplemento mensile che ormai da due anni esce con il settimanale Vita. Vengono da Egitto, Giordania, Iran, Kashmir, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia... e sono in maggioranza ragazze. Maturati in fretta, abituati a dar conto della loro identità multipla fin da quand'erano piccoli («Come mai non mangi il prosciutto? Sei allergico o cosa? », «Tuo nonno ha la macchina o va in giro in cammello?»...), hanno molte cose da dire e soprattutto un ruolo da giocare.

Se ne sono accorti in America prima che da noi. Non solo, infatti, a Yalla Italia! hanno dato spazio l'Herald Tribune e il New York Times, ma parecchi di loro e dei membri dell'Associazione Giovani Musulmani d'Italia sono già stati negli Usa, su invito del Dipartimento di Stato, per poter conoscere la realtà delle comunità musulmane statunitensi. Dal 2006 partecipano regolarmente alla cerimonia che il 30 gennaio di ogni anno commemora la partenza dei treni dalla Stazione centrale di Milano diretti ai campi di sterminio nazisti. Esprimono così la loro partecipazione al ricordo di un evento tragico che ha colpito non solo gli ebrei ma tutta la città di Milano.
Durante la crisi di Gaza, nella redazione di Vita, hanno voluto incontrare loro coetanei ebrei italiani (molti dei quali originari dei paesi del Nordafrica) per dire il proprio dolore e ascoltare quello degli altri. Gesti semplici, poco clamorosi, ma carichi di un'umanità più ricca e variegata di quanto ci ostiniamo a credere, danno un enorme rilievo a singoli fattidi cronaca certamente preoccupanti ma paragonabili al classico fragore dell'albero che cade nel silenzio di una foresta che cresce.

27 maggio 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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