«Un incontro conviviale» e «non una riunione organizzata dal governo Berlusconi». Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito, cerca di buttare acqua sul fuoco della cena di maggio, a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella, con il premier Silvio Berlusconi, il sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini e un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano. Ma Pd e Idv «non sono affatto soddisfatti». Il primo chiede ai giudici di «astenersi» dalla decisione sul Lodo Alfano, il 6 ottobre, per tutelare «il prestigio» della Corte; il secondo ne chiede le «dimissioni» (o quantomeno l'astensione sul Lodo Alfano) e analoga richiesta rivolge ad Alfano, perché è stata «infangata la sacralità della Corte». Alla Camera scoppia la bagarre. «È solo lei che infanga l'Italia, si vergogni!», tuona Sandro Bondi contro Antonio Di Pietro. Nel frattempo, Mazzella decide di rendere pubblica una lettera al «Caro Silvio...», in cui non solo preannuncia altre cene, «fino al momento in cui un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali», ma chiama in causa anche i colleghi: «Molti dei miei attuali ed emeriti colleghi hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e - aggiunge - potrei fartene un elenco chilometrico».
Il caso politico-istituzionale deflagra. A Palazzo della Consulta nessuno vuole parlare. Vito ha smentito che durante la cena si parlò del Lodo e di un progetto di riforma costituzionale (separazione carriere, Pm trasformati in «avvocati dell'accusa» e Csm di soli giudici) poi vergato dallo stesso Mazzella, consegnato a Palazzo Chigi e da qui trasferito al Senato per farne un Ddl di riforma costituzionale. Nella lettera a Berlusconi, Mazzella lo smentisce di nuovo: «A casa mia, come tu sai per vecchia consuetudine, la cena è sempre curata da una domestica fidata (e basta!). Non vi sono, cioè, possibili "spioni"...». Definisce «un'invenzione di sana pianta» il racconto sulla conversazione di quella sera. E chiosa: «La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole a ignari lettori è ben altra!». Qualche riga prima evoca le pratiche della polizia tedesca fascista e spiega che renderà pubblica la lettera per evitare che si parli di una «missiva carbonara e piduista».
Il riferimento è a Di Pietro, che in Aula, per nulla soddisfatto della risposta di Vito alla sua interpellanza, aveva parlato di giudici «spregiudicati». «Non sapremo mai - aveva aggiunto - se la decisione del 6 ottobre sarà frutto di una valutazione assunta in totale indipendenza o di una cena carbonara e piduista». Anche il Pd insiste sull'«inopportunità» di quell'incontro. «In qualsiasi altro paese sarebbe stato un gravissimo scandalo», dice Anna Finocchiaro. E a Mazzella, Donatella Ferranti ricorda «il principio della moglie di Cesare: il rispetto della forma richiama il rispetto della sostanza». Per tutta risposta, Fabrizio Cicchitto del Pdl accusa l'opposizione di «violenta aggressione» alla Corte; parla di «un chiarissimo tentativo di delegittimazione e di interferenza sulla decisione del Lodo Alfano, per costringere la Corte a bocciare» la legge; dice che è «risibile» sostenere che i giudici costituzionali non possano frequentare «in piena trasparenza» componenti del governo quando è «notorio» che parlamentari dell'opposizione frequentano componenti della Corte. Ma per Di Pietro, «Mazzella è ormai reo confesso», ha «calpestato etica e diritto» e deve dimettersi.