La rivolta dei lavoratori immigrati a Rosarno ha riportato in primo piano una situazione di forte disagio che non riguarda solo la Piana di Gioia Tauro. Lo scontro tra le esigenze di sicurezza per i residenti e il rispetto dei diritti umani di chi viene in Italia per lavorare si infiamma in un contesto produttivo dominato dal lavoro nero e dalle filiere lunghe. Realtà in cui le imprese che agiscono rispettando le regole vengono naturalmente emarginate. Un viaggio nelle campagne del Sud invisibile, nelle terre degli stagionali, dei rumeni, dei magrebini, degli africani. Da Foggia a Cassibile, passando per Rosarno molti migranti garantiscono la qualità della dieta mediterranea in assenza di diritti umani.

«Non parlo la vostra lingua - racconta Mohamed - preferisco passare il tempo con gli arabi. Non parliamo molto con gli italiani». Sono le cinque del mattino nella piazza centrale di Cassibile, provincia di Siracusa. E' ancora buio ma gli stranieri sono già disposti nei due lati della piazzetta: da una parte ci sono quelli del Malì dall'altra i migranti venuti dall'est e i magrebini che spesso non vengono "ingaggiati". «Veniamo qui tutte le mattine e aspettiamo che ci vengono a prendere per andare nei campi». Mohamed ha poco meno di 30 anni e viene dal Marocco. Come molti altri durante la stagione estiva, da maggio a agosto, si ritrova in questo paesino di 5 mila anime del siracusano, per la raccolta delle patate. «Non lavoro tutti i giorni - racconta - quando capita, per un'intera giornata mi danno 40 euro, ma di questi me ne restano pochi. La prima parte va ai caporali, 4 euro a testa per essere accompagnati nelle terre, penso che sia giusto, mettono la benzina, è una cosa che serve a tutti».

Il caporale è una figura storica della tradizione siciliana che negli anni Cinquanta accompagnava i braccianti nelle terre dei signori per poi riportarli la sera nella piazza del paese. Oggi sono stranieri che vivono nel territorio da più tempo e sono legati al caporale italiano, spesso lo stesso proprietario dell'azienda agricola. «Siamo considerati clandestini - continua Mohamed - abbiamo paura di andare in giro perché i cittadini non ci vogliono». A Cassibile i lavoratori sono stagionali e seguono, come in una tratta silenziosa, le terre della raccolta in mezza Italia, in una sorta di Grand Tour del lavoro nero: Cassibile, Alcamo, Rosarno, Castelvolturno, Foggia e Napoli. Dormono negli stessi terreni in cui di giorno lavorano. In mezzo alle piante. Senza acqua, né letti e servizi igienici.

«Siamo dimenticati - aggiunge Alì mentre sorseggia un bicchiere di tè caldo nella sua tenda - Non lavoro da un mese perché non ho il permesso di soggiorno. I caporali non mi vogliono perché non mi conoscono. Ci pagano 40 euro senza contratto, però quando va bene ne prendo solo 32: cinque vanno nelle tasche dei caporali e 3 per il trasporto. La legge è questa: o ci stai o te ne vai. Io sono al ventunesimo decreto di espulsione. Dopo le patate vado nelle campagne vicino a Napoli a raccogliere le noccioline. A ottobre i mandarini e le arance in Calabria dove ci pagano 25 euro ma lavoriamo tutti».

Anche nel Foggiano la giornata nei campi comincia alle cinque. A San Severo, i migranti vivono allo stesso modo in tende di fortuna dispersi tra le piantagioni di pomodoro per l'industria di trasformazione, sono un centinaio. Equamente divisi tra eritrei da una parte e magrebini dall'altra. La manodopera straniera costa tre euro a cassettone che, per una giornata lavorativa di otto ore si traduce in meno di 20 euro nette. Da aprile a ottobre nel territorio secondo gli elenchi anagrafici dell'Inps, sono occupati circa 45 mila lavoratori di questi 16 mila sono stranieri, un dato che è cresciuto dai 4500 del 2006 ai 14 mila del 2007, ma l'80 per cento della manodopera straniera è al di sotto delle 51 giornate necessarie per l'assistenza previdenziale.

«Sono arrivato da circa un mese - racconta Asmelash, eritreo, mentre sventola il suo permesso di soggiorno stagionale. Lavoro solo due giorni a settimana per tre euro a cassone, perché dei cinque una parte va ai caporali». Il campo è simile a quello delle campagne siciliane. La cucina è fatta di pietre e sul fuoco c'è ancora l'odore del tè, alcuni dormono ancora fuori avvolti nelle coperte di pile e nelle sterpaglie una fontana per i bisogni di prima necessità: lavarsi e cucinare. «Ho lavorato solo una settimana - annuisce Gobriot, somalo - non mi hanno ancora pagato e non posso mangiare, voglio i soldi per andarmene in Sicilia perché a Foggia vogliono solo i rumeni». A differenza del resto del meridione, infatti, a Foggia i proprietari delle terre preferiscono i rumeni "regolari e neocomunitari" che vengono pagati a cottimo. «Guadagno 35 euro al giorno - spiega Marika, rumena - perché in media riesco a riempire una decina di cassettoni al giorno. Poi me ne vado a Lecce dove abito con altre persone».

A Vittoria i pomodori hanno il sapore della discordia. «Non posso lavorare per 10 ore di seguito -dice Nabir, 46 anni, magrebino, mentre aspetta il caporale - e essere pagato 20 euro. La colpa è tutta dei rumeni, io non ce la faccio» . Cinque del mattino anche a Vittoria nel ragusano, terra di lotte per i diritti sindacali e culla della cooperativa Rinascita che per prima trasformò braccianti in imprenditori. «Non ci ingaggiano - continua - così non possiamo cumulare le giornate lavorative necessarie per ottenere l'indennità di disoccupazione». E' tempo di raccolta a Vittoria e piazza Baghdad, così la chiamano per via della presenza di stranieri, è piena. Molti sono magrebini e vivono nella città da diversi anni. «Abito qui dal 1987 - dice - ma adesso me ne andrò perché qui mi vergogno a lavorare . Io ho tre bambini e una moglie cerco di lavorare per riuscire a fare venire mia moglie qui. Non posso vivere né pagare una casa, una luce. Ti chiamano solo se c'è qualche tunisino che ti conosce e ti raccomanda. Nei camioncini ci vanno solo i rumeni perché si portano le donne. Se ci vai con una donna non hai problemi, ti assumono ma per 15-20 euro. Questo non è vivere».

La percentuale di lavoro nero è preoccupante: secondo le stime della Cgil sono circa un milione i lavoratori irregolari in agricoltura e che rappresentano un quarto dell'economia informale. «Negli elenchi anagrafici dell'Inps per il 2007 - dice Salvatore Lo Balbo segretario nazionale Flai Cgil - i lavoratori comunitari iscritti erano 980 mila, di questi 60 mila non sono italiani ma europei, gli extracomunitari sono 81 mila. Un dato che è criticabile, 160 mila lavoratori li troviamo forse in una sola regione. Sembra più facile sconfiggere la mafia, rispetto al lavoro nero perché ci sono percorsi conosciuti e meglio avviati».

Quest'anno la Flai nazionale ha avviato una campagna contro il lavoro nero. Significativo il titolo: «Oro rosso. Dal reality alla realtà». Un percorso di emersione nelle campagne foggiane che ha visto impegnati per dieci giorni circa 70 sindacalisti da tutta Italia per sensibilizzare i migranti nel riconoscimento dei propri diritti.

Uno dei nodi da sciogliere è quello della filiera distributiva troppo lunga. Questi ultimi, insieme agli operai che forniscono la manodopera, sono i primi anelli - i più deboli - di una lunga catena che porta frutta, ortaggi, olio e vino sulle tavole dei consumatori. «La filiera lunga aumenta eccessivamente i costi - spiega Balbo - e oltre a penalizzare le parti piu' deboli, ostacola la tracciabilità e toglie competitività ai nostri prodotti soprattutto sui mercati del Nord Europa dove i pachino, tanto per fare un esempio, vengono venduti a 18 euro al chilo, mentre al produttore vanno poche decine di centesimi».
Questa posizione è condivisa anche dai produttori.
«Esistono le norme a tutela dei rapporti tra parti datoriali e lavoratori - dice Nino Grippaldi presidente Confindustria Enna e delegato regionale Agroindustria Sicilia - . La cosa da evitare è quella di chiudere gli occhi davanti a fenomeni macroscopici. Un modo per agevolare l'emersione, ad esempio, è quello di incentivare i produttori ad impiegare lavoratori regolari e, allo stesso tempo, sanzionare quelli che impiegano lavoratori in nero. Basterebbe prendere ad esempio il modello spagnolo che nel settore ha fatto importanti passi in avanti e che per determinati lavori stagionali deroga a barriere che derivano dal Trattato di Schenghen. Non vedo perché quello che va bene per l'Andalusia non possa essere applicato a Pachino».