Che fine ha fatto il pacchetto di misure anticorruzione varato di gran carriera dal governo Berlusconi il 1° marzo? A venti giorni da quella decisione, il disegno di legge non è mai arrivato in Parlamento. Non sono tempi fisiologici. Il provvedimento, che inaspriva le sanzioni per i reati di corruzione e concussione, già aveva diviso il governo e la maggioranza prima del varo con gli ex An e la Lega schierati per una volta dalla stessa parte in favore delle "liste pulite" contro gli uomini della ex Forza Italia. La proposta Fini-Calderoli di vietare l'ingresso in Parlamento per cinque anni ai condannati con sentenza definitiva per corruzione, per esempio, aveva avuto una gestazione tutt'altro che facile e solo nella riunione del Consiglio dei ministri era stata partorita, in extremis.
I contrasti continuano oggi su altri aspetti di quel Ddl che non sembra più tanto urgente come avevano detto Angelino Alfano e Silvio Berlusconi: resta fermo al Dagl, il dipartimento per gli affari giuridici e legali di Palazzo Chigi. Fra i punti critici ci sono le norme che riguardano il rafforzamento dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici. In particolare, quella sui "criteri reputazionali" espressi dalla stessa Autorità: una sorta di pagella data alle imprese appaltatrici per i loro comportamenti nei contratti con la pubblica amministrazione. La misura era stata già motivo di scontro in consiglio dei ministri. Anche il trasferimento delle competenze sul monitoraggio degli appalti dagli osservatori regionali dell'autorità all'osservatorio nazionale, che pure doveva servire a rendere più efficiente il sistema, crea tuttora molte resistenze.