Vi sono due diversi modi di considerare lo stato della città di Milano a cui credo non ci si possa sottrarre. Il primo è la qualità architettonica delle opere che si vanno costruendo, il secondo, assai più connesso allo sviluppo civile, è il suo controllo con una qualche ipotesi di futuro volta all'interesse collettivo. La prima questione è in qualche modo la più semplice. Essa è rappresentazione della crisi della cultura architettonica sempre più connessa solo ad un interessato e positivo rispecchiamento dello stato delle cose; con una rinuncia ad ogni distanza critica da esse, unica possibilità di fare proposte in grado di immaginare il possibile altro, senza ignorare le contraddizioni del presente.
A questo si deve aggiungere uno spiacevole provincialismo milanese che ha trasformato negli ultimi anni il suo prudente illuminismo in ideologico praticismo tutto volto ad una concezione di pura immagine comunicativa di servizio. Se si guardano le questioni da questo punto di vista, le cose di qualche interesse per la cultura architettonica costruite a Milano nell'ultimo decennio non sono più di una dozzina. Anche alcune "archistar" di notorietà mediatica internazionale hanno fornito a Milano il peggio di sé. Molto più grave è la situazione dal punto di vista delle decisioni che riguardano il futuro dell'insieme urbano, costruito con scarso senso civile della relazione tra le cose e nella convinzione dell'automatico equilibrio della logica del mercato. Anche qui ci rendiamo conto che è l'idea di città ad essere in crisi là dove è solo la grande quantità, l'estensione infinita della postmetropoli a fare da modello ideale persino per le medie città europee come Milano. La desiderata semplificazione delle regole così come l'aumento della flessibilità dei piani non dovrebbe corrispondere ad una loro rinuncia quanto piuttosto ad una loro capacità di essere dialettici non solo nei confronti del mutare dei bisogni, mutamenti sovente indotti dagli interessi oligarchici in gioco, quanto ad una qualche idea strutturale di città, di un suo equilibrio senza ossessioni di sviluppismo, e del comprensibile disegno delle sue parti.
Molti anni or sono vi era stata, con il progetto di piano intercomunale, una presa di coscienza del problema della relazione tra Milano ed il suo territorio, anche con la creazione di una serie di centri studi con contributi di personalità di rilievo della cultura della pianificazione, oggi del tutto abbandonati. Dopo aver perso l'occasione delle dismissioni delle aree industriali negli anni Ottanta per muovere verso un'autentica riforma della città, anche l'occasione delle dismissioni ferroviarie sembra una questione che potrebbe andare perduta, anche se i suoi effetti strutturali potrebbero essere importanti.
Esaurito poi negli anni, con uno "sprawl" senza alcuna regolazione, il territorio a nord della città, adesso è il sud, tradizionalmente agricolo, ad essere sotto assedio, e con la copertura provvisoria di una falsa coscienza ecologica. L'idea stessa del ripopolamento della città sembra una controidea piuttosto astratta, almeno a medio termine, volta per ora solo a giustificare l'aumento di densità del costruito, e a nascondere la verità del fabbisogno di edilizia popolare, di disponibilità di alloggi in affitto a condizioni ragionevoli e di una strategia di servizi soprattutto per le fasce deboli che appare sempre carente. Milano possiede una tradizione importante nel campo degli studi urbani, del disegno della città come intima connessione con la cultura architettonica da più di un secolo: forse a partire dal pensiero di Carlo Cattaneo (senza alcuna interpretazione leghista) a cui sarebbe necessario ripensare. La storia del pensiero urbano come quella della società è il terreno su cui tutti camminiamo; con il vantaggio che ci lascia liberi sulla direzione da prendere: senza rinunciare a convinzioni ed a responsabilità.