Avanti sulle riforme. La cena di Arcore tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi – con adeguate rappresentanze sia del Pdl che della Lega – ha dato il via libera a una road map che tiene insieme quelle istituzionali, il federalismo, il fisco e la giustizia. Insomma, si tira dritto anche se il vertice di ieri sera non ha sciolto la vera questione: a chi sarà affidata la regia? Anche perché su questo punto si aspetta il faccia a faccia tra il premier e Gianfranco Fini. La forma di stato è quella che il Carroccio, con un'intervista di Roberto Maroni, cerca di intestarsi accreditandosi come interlocutore dell'opposizione e questo crea non poche fibrillazioni nel Pdl. La vigilia stessa della cena – poche ore prima che gli invitati arrivassero a Villa San Martino – è stata segnata da una polemica innescata da Farefuturo.

Ma sul piatto, ieri sera, il premier ha messo anche le riforme che ha più a cuore: la giustizia con il provvedimento sulle intercettazioni su cui si è discusso anche dopo che Bossi e Tremonti hanno lasciato il vertice. Sotto esame le due opzioni: o lasciarlo così com'è «sfidando» il Quirinale o accedere alle modifiche a partire da quell'aggettivo «evidenti» indizi di colpevolezza. Ma sul tavolo c'è anche il fisco, che come dicono i sondaggi, è in cima alle aspettative degli italiani, come pure la riduzione dei parlamentari. Il tavolo era al gran completo: c'erano i ministri Giulio Tremonti, Roberto Maroni, Roberto Calderoli e poi Sandro Bondi insieme agli altri due coordinatori del Pdl Ignazio La Russa e Denis Verdini ma a rafforzare la componente leghista oltre al Senatur anche suo figlio Renzo e Roberto Cota. Insomma, lo stato maggiore di Lega e Pdl – ma c'era anche Giuliano Urbani – convocato soprattutto per risolvere due nodi: la gestione del dialogo sulle riforme e il rimpasto di governo con la sostituzione di Luca Zaia.

La cena è arrivata dopo un pomeriggio di tensioni. Scatenate in particolare, dal web magazine di Farefuturo, in cui il direttore, Filippo Rossi invitava il Pdl a «battere un colpo per non morire tutti leghisti». Da qui è partita una polemica che finirà nell'incontro di oggi tra Fini e Berlusconi, prima dell'ufficio di presidenza del Pdl (anche se non c'era conferma). In attesa del faccia a faccia, nel Pdl ieri si è accesa la miccia. «Una nota stonata», ha definito la nota di Farefuturo Sandro Bondi seguito da Fabrizio Cicchitto che si chiede: «In quale pianeta è vissuto Farefuturo quando parla di Pdl muto». Ma poi a spegnere i fuochi è arrivato Adolfo Urso, segretario generale di Farefuturo che chiarisce: «L'intervista di Maroni, ottima dove consacra il semipresidenzialismo, ha suscitato contrastanti commenti, come quello di Filippo Rossi, che non coincide con il pensiero della fondazione». Spento questo fuoco resta accesa però la sostanza del contendere: ossia quella famosa regia a chi va? Italo Bocchino, vicepresidente deputati Pdl, e fedelissimo del presidente della Camera, lancia Fini "pivot": «È il Pdl la locomotiva avendo preso tre volte i voti della Lega. Un ruolo da pivot spetta a Fini: può garantire da un lato la coesione della maggioranza e il dialogo con l'opposizione; dall'altro un attento ascolto delle valutazioni del Colle».

Intanto la Lega comincia a muovere le sue pedine. «Per negoziare il federalismo con il governo centrale, il Nord ha la necessità di presentare un'unica piattaforma comune tra tutte le regioni settentrionali. Dovrà muoversi a falange macedone per questo obiettivo», ad annunciarlo è Luca Zaia, governatore del Veneto che anticipa anche un nuovo statuto regionale entro la fine dell'anno. E le tensioni di Roma tra Pdl e Carroccio si sentono pure sul territorio. È tranchant Letizia Moratti, a chi gli chiedeva della candidatura di Bossi a sindaco di Milano: «36 a 14», rispondeva citando le rispettive percentuali di voti. Pure la rivendicazione del sindaco di Napoli per il Carroccio – fatta da Roberto Maroni – crea polemiche in Campania che Stefano Caldoro cerca di attenuare: «Era solo una battuta».

Restano i paletti del Pd. «Se si pensa di mascherare sotto un presidenzialismo all'americana o alla francese un sistema sudamericano con una curvatura populista, noi non ci stiamo», diceva Pierluigi Bersani che però si dice pronto a votare sia «il Senato federale che la riduzione del numero di parlamentari» e non esclude la sua candidatura a premier nel 2013.

IL PUNTO / La «regia» leghista non va presa alla lettera, ma nella sostanza (di Stefano Folli)
INTERVISTA / Ghedini: «Lega alleato granitico sulla giustizia»

 

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