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La lunga scia di una tragedia

di Miguel Gotor

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08 Maggio 2010

Il 1980 fu un anno terribile per l'Italia perché il terrorismo raggiunse l'apice della sua spinta sovversiva. Ormai la memoria di quegli eventi si fa confusa o è del tutto assente: confusa per chi c'era e, davanti a una minestra fumante, guardava il telegiornale in silenzio, come se ascoltasse un quotidiano bollettino di una guerra incivile; assente per chi non c'era e non è stato educato a ricordare.
In quel tragico anno il terrorismo "rosso" (le Br, Prima linea, il pulviscolo di organizzazioni nate per imitare i fratelli maggiori) uccise 24 uomini; quello "nero" (con i Nar) ne assassinò 4, rendendo inoltre la sua manovalanza disponibile a perpetuare il più grave attentato della storia repubblicana, quello della stazione di Bologna, dove il 2 agosto 1980 morirono 85 persone. I due progetti eversivi sembrarono darsi la mano per stringere al collo il corpo della democrazia italiana: da una parte, con la pratica di una serie di omicidi selettivi che colpivano i riformisti di questo paese e quanti compivano con professionalità il proprio dovere con l'obiettivo di radicalizzare vieppiù il conflitto: giornalisti come Walter Tobagi, professori come Vittorio Bachelet, il generale Enrico Galvaligi, e soprattutto magistrati chiamati a pagare un tributo di sangue come categoria che sarebbe sconcio dimenticare in un tempo in cui si parla con troppa leggerezza da più parti di un fantomatico "partito dei giudici".
Solo nel 1980 i neofascisti uccisero Mario Amato e i terroristi rossi Guido Galli, Girolamo Minervini e Nicola Giacumbi. Dall'altra, con l'immonda pratica della strage indiscriminata contro cittadini inermi che seguiva le ondate della cosiddetta "strategia della tensione", iniziata con Piazza Fontana nel 1969 e finita nel 1984 con l'attentato del treno di Natale. Un'azione accompagnata da depistaggi di apparati dello stato che aveva la finalità, fino al 1974, di creare le condizioni per un golpe militare, e, successivamente, di stabilizzare il quadro politico.
Oggi si celebra al Quirinale, davanti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la quarta edizione del "Giorno della memoria" delle vittime del terrorismo e delle stragi e il pensiero va anzitutto a quanti sono morti in difesa e per conto delle istituzioni repubblicane a causa di una efferata violenza politica e ideologica. Da più parti si chiede che tali celebrazioni non abbiano un tono retorico, ma sta soprattutto a noi evitare di renderle tali, nella misura in cui riusciamo a partecipare del loro significato civile, senza svuotarle di senso con la nostra indifferenza o, peggio ancora, malizia.
Anzitutto, ricordare le vittime del terrorismo è necessario come forma di risarcimento civile che la comunità deve ai loro famigliari, troppo a lungo dimenticati, quasi costretti a doversi vergognare del lutto spesso con un sentimento di frustrante umiliazione. Si è vissuta una lunga stagione in cui il cuore mediatico del discorso batteva al ritmo dei terroristi che raccontavano le proprie gesta o esponevano il loro pentimento.
In secondo luogo, serve come forma di mobilitazione civile. In effetti, negli ultimi tempi si sono moltiplicate le iniziative volte a ricordare le vittime di quegli anni da parte di associazioni, centri studi, scuole, fondazioni, circoli che hanno dato luogo a inedite manifestazioni di cittadinanza attiva e consapevole. Non solo libri come quello di Umberto Ambrosoli e Benedetta Tobagi, ma anche raccolte di testimonianze come il volume Sedie vuote, nato dall'impegno di un gruppo di ragazzi trentini; oppure la staffetta in bicicletta in onore di Marco Biagi, organizzata dall'ordine dei commercialisti di Bologna, o il cd rom Vittime curato dall'associazione Aiviter.
A questo proposito è decisivo il ruolo della ricerca storica, e non a caso nell'odierna Giornata della memoria sarà esposto il progetto della Rete degli archivi per non dimenticare, che ha censito a livello nazionale i documenti relativi al terrorismo, allo stragismo, alla violenza politica e alla criminalità organizzata individuando gli archivi pubblici e privati dove sono raccolti. Anche la buona informazione potrebbe fare molto, ad esempio ricordando che in questi mesi è in corso a Brescia il processo per la strage di Piazza della Loggia del 1974, ove, udienza dopo udienza, si confrontano i manichini ormai invecchiati imputati di quella tragedia e la carne viva di mogli, mariti, fratelli, figli che, a distanza di 36 anni, ancora aspettano giustizia.
Infine, la celebrazione di oggi è importante come forma di vigilanza civile: rimuovere è il modo migliore per favorire il ritorno dei fantasmi del passato e impedisce di creare una coscienza per distinguere e capire. Di recente è uscito un libro presso l'università di Macerata intitolato I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni 60 e 70, a cura di Angelo Ventrone, in cui è presente un interessante saggio di Giovanni Moro. L'autore sottolinea come la memoria su quel periodo sia «difettosa o del tutto assente», ambiguamente sospesa tra tragedia e magia.
Parlare di quel passato è ancora difficile in quanto significa toccare «un nervo scoperto che suscita emozioni, polemiche, furori ideologici» che inducono a preferire la strada della dietrologia o del riduzionismo piuttosto che quella della responsabilità politica, civile e storica. Avviene perciò un curioso cortocircuito: «Il massimo di vicinanza del dibattito pubblico a quel periodo corrisponde a un massimo di amnesia su di esso», e da questa trappola deriva una dimenticanza ancora più grave. Gli anni 70 sono stati anche un'età preziosa, caratterizzata da un elevato livello di partecipazione, di riforme e di riconoscimento di nuovi diritti dell'individuo, della famiglia, del lavoro, ma un manipolo di uomini ha parlato il linguaggio delle armi riducendo al silenzio un'intera generazione che preferisce tacere oppure non riesce ad abbandonare i panni del reduce.
  CONTINUA ...»

08 Maggio 2010
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