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Pakistan, università della jihad

di Alberto Negri

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6 Ottobre 2007

AKORA KHATTAK. Dal nostro inviato
La shalwar kamiz con il gilet scuro è in ordine, lo zucchetto, il pagri, quello giusto per la preghiera del venerdì e la barba nella zona tribale dei pashtun è quasi un lasciapassare: con questo look islamico, rispettoso dei rigidi dettami del rito Deobandi, il mufti Saif Hullah si convince ad aprire le porte della Darul Oulum Haqqania, la Casa della conoscenza, una delle più grandi scuole religiose del Pakistan, famosa perché il suo fondatore, il Maulana Sami ul Haq, senatore e leader del partito Jamiat Ulema i-Islam, è considerato il padre dei talebani afghani: da questa università della jihad partirono negli anni 90 i seguaci del Mullah Omar per lanciarsi alla conquista di Kandahar e Kabul. È in madrasse come questa che oggi vengono allevati i neo-talebani, una nuova generazione di militanti, tutta pakistana, emersa dopo l'invasione americana dell'Afghanistan, che costituisce il nocciolo duro della rivolta contro l'appoggio agli americani nella guerra al terrorismo del Governo Musharraf.
«Pakistan e Islam sono la stessa cosa, quasi dei sinonimi», dice il mufti, che è anche professore di giurisprudenza e mi introduce con grande cordialità nel suo sancta sanctorum: l'ufficio delle fatwa, le sentenze religiose, dove è custodito anche il diploma ad honorem conferito al Mullah Omar, che in realtà non ha mai potuto frequentare i corsi della madrassa. Arrivano richieste di sentenze da ogni parte e non solo riguardanti questioni coraniche: «Queste – dice Saif Hullah, mostrando un voluminoso faldone - sono le domande per la divisione delle eredità e la spartizione delle terre». Le sentenze, migliaia, sono gratuite, emanate secondo i dettami della sharia, la legge islamica: è l'unica forma di giustizia che circola nelle zone tribali pakistane della North West Frontier e del Waziristan, dominate dall'etnia pashtun, dove le tribù sono strettamente imparentate con quelle dall'altra parte della frontiera. I talebani hanno dichiarato il Waziristan "Emirato islamico" e stanno cercando di instaurare un'amministrazione parallela basata sulla sharia: ad oggi tengono in ostaggio, dopo averne uccisi tre, 240 soldati dell'esercito pakistano.
Ma il fenomeno delle scuole religiose riguarda tutto il Pakistan, è la punta di lancia della resistenza intellettuale e militare all'Occidente, un movimento di massa preoccupante uscito fuori controllo. «Il futuro del Pakistan è nostro», dice Ahmed, uno dei 3.500 studenti della Haqqania che studiano le materie coraniche, ma anche inglese e informatica. A differenza dei talebani afghani, di cui condividono l'ideologia, sono anche esperti di tecnologie e media e hanno una migliore comprensione del mondo, ne conoscono i meccanismi perché la modernità è a portata di mano: ci sono 50 canali televisivi cablati, un'offerta dove Mtv convive con i canali religiosi e in inglese; a questi si affiancano poi dozzine di emittenti regionali in pashtun, punjabi, sindhi baluchi, che prima ancora dell'urdu, l'idioma ufficiale, sono la prima lingua di milioni di pakistani.
La proliferazione delle madrasse iniziò negli anni Ottanta, con il generale Zia ul Haq, per allevare i mujaheddin e sostenere la guerra santa in Afghanistan contro i sovietici: alla fondazione del Pakistan, nel ‘47, se ne contavano meno di 300, negli anni Novanta erano già 6.700, oggi sono almeno 12mila, ma se si aggiungono le scuole più piccole, quelle dove l'attività principale è mandare a memoria il Corano, il numero è di circa 50mila. Gli studenti, ragazze comprese, sono circa un milione e 400mila.
Si tratta di un intero sistema educativo islamico, dove l'accesso è libero e gratuito, che fa concorrenza a un settore pubblico moribondo. Molte scuole statali esistono soltanto sulla carta. Imran Khan, ex capitano della nazionale di cricket entrato in politica, due anni fa ha condotto un'inchiesta sulle scuole pubbliche del suo distretto, scoprendo che un quinto di quelle registrate neppure esistevano e che il 70% era quasi sempre chiuso. Il risultato è un fallimento eclatante: oltre il 55% della popolazione pakistana è analfabeta, in India, per fare un paragone, il tasso di alfabetizzazione è del 65 per cento.
Per una parte rilevante della popolazione l'unica speranza di dare un'istruzione ai figli è mandarli nelle madrasse, dove riceveranno un'educazione strettamente tradizionale, ma totalmente gratuita (e persino vitto e alloggio). «Non sono soltanto i più disagiati a scegliere le scuole religiose, ma anche famiglie della piccola borghesia che con tre-quattro figli non si possono permettere una scelta diversa: il successo di queste madrasse è il segnale che non solo si è allargata la forbice tra ricchi e poveri, ma è in corso anche un impoverimento delle classi medie», dice Hamid Mir, il più famoso giornalista pakistano, direttore di Geo Tv, che nel 2001 intervistò Osama bin Laden.
Musharraf aveva minacciato fuoco e fiamme per chiudere le madrasse, ma poi non lo ha mai fatto: perché? «Militanti e partiti religiosi, che in questo Paese sono più di 50, sono serviti come puntello - spiega Hamid Mir - al regime militare. Dopo il colpo di Stato del '99 Musharraf li ha usati per neutralizzare i principali partiti politici, il Partito popolare di Benazir Bhutto e la Lega musulmana guidata da Nawaz Sharif. Militari e mullah sono tradizionalmente alleati: un patto che però sta mostrando sempre più crepe, soprattutto dopo il massacro della Moschea Rossa a Islamabad».
Alla Haqqania gli studenti si affollano intorno alla barba bianca del venerabile Sher Alì Shah, 78 anni, considerato una delle maggiori autorità religiose Deobandi, la corrente islamica della più pura e dura ortodossia, nata in India a metà dell'800. Gli allievi, tutti molto giovani, gli massaggiano le spalle, le braccia, le gambe, con la delicatezza e l'attenzione che si riserva a una reliquia. «L'accordo tra Musharraf e Bhutto - dice l'anziano ulema - non risolve i problemi del Pakistan, ne crea degli altri, soprattutto ai religiosi: ma il Pakistan apparterrà sempre all'Islam, non a Musharraf o a Bush». Uno dei seguaci di Sher Alì si avvicina e proclama: «Un generale senza divisa non è più niente, senza la spada Musharraf non potrà colpirci e diventerà più vulnerabile di un mullah senza turbante».

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