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«Pakistan pronto alla jihad»

di Alberto Negri

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10 Ottobre 2007

ISLAMABAD. Dal nostro inviato
Khalid Khawaja, 55 anni, ex agente dei servizi militari pakistani (Isi), dove dirigeva il desk Afghanistan, il famoso Afghan Bureau, è un uomo dalla fama controversa, il simbolo delle relazioni ambigue tra Islamabad e la galassia della jihad.
Daniel Pearl, l'inviato del Wall Street Journal si rivolse a lui per indagare sui rapporti tra l'Isi e il terrorismo qaidista: Pearl qualche tempo dopo finì a Karachi nelle mani di al-Qaida, che lo fece decapitare. Khalid, amico di vecchia data di Osama bin Laden, con il quale ha combattuto in Afghanistan, è stato nel 2001 il mediatore tra il direttore della Cia James Woolsey e il Mullah Omar, l'organizzatore degli incontri tra Osama e alcune delle personalità pakistane più importanti, come l'ex premier Nawaz Sharif. Quest'anno ha fatto da collegamento tra le autorità di Islamabad e Abdul Rashid Ghazi, il mullah della Moschea Rossa ucciso nel luglio scorso insieme a qualche centinaio di militanti islamici in un assalto dei reparti speciali dell'esercito pakistano all'edificio religioso nel quale si erano asserragliati.
Accanto a Khalid, nella sua casa in uno dei quartieri residenziali della capitale, è seduto il figlio di Ghazi, Harun Rashid, un ragazzo di 14 anni con lo sguardo vivace, ospitato qui con tutta la famiglia del mullah "martire". «Ghazi era il mio più grande amico - dice Khawaja - capace di spiegare in due parole che cos'è l'Islam, ovvero: considerazione per l'umanità.
Ghazi, con il fratello Abdul Aziz, da gennaio a luglio è stato il portabandiera di una ribellione islamica, una sfida aperta a Musharraf, per instaurare la sharia, la legge islamica, nella capitale del Pakistan. Vennero rapite, fatte prostituire, minacciate insegnanti e alunne delle scuole femminili: fu il tentativo di far esplodere nel cuore del potere, a un miglio dal palazzo presidenziale, l'insurrezione dei pashtun del Waziristan dove la guerriglia tribale - la cronaca di questi giorni, con i violenti scontri nella zona al confine con l'Afghanistan, ne è testimonianza eloquente - si oppone all'esercito e sta tentando di riprodurre in Pakistan una sorta di nuovo emirato talebano.
«La jihad, la guerra santa, non è finita con la sconfitta dell'Unione sovietica in Afghanistan e con la caduta dei talebani: non abbiamo combattuto per l'Occidente, che allora ci applaudiva, una guerra per procura. È stata una battaglia per l'Islam che continua: anche in Pakistan, dove gli Stati Uniti già bombardano il Waziristan e vorrebbero entrare con i loro soldati». L'oratoria è incendiaria, Khalid non nasconde la sua avversione per l'Occidente, condivisa esplicitamente o in modo sotterraneo da molti ufficiali delle forze armate che non hanno digerito, tra dimissioni e siluramenti, lo schieramento del Governo di Musharraf a fianco di Washington nella guerra al terrorismo.
La storia della quinta colonna pakistana della jihad comincia per Khalid nell'87 con una lettera al generale Zia ul Haq, l'islamizzatore del Pakistan: «Lo accusavo di essere un ipocrita interessato soltanto al potere invece di imporre nel Paese la sharia». Zia lo solleva ufficialmente dall'incarico, ma in realtà il generale golpista, grande sostenitore della guerriglia dei mujaheddin finanziata da americani e sauditi, lo spinge nelle braccia di bin Laden: Khalid si occupa dei combattenti arabi e tiene i rapporti con l'allora capo del'Isi, Hamid Gul. «Dividevo il mio tempo con Osama e i suoi referenti spirtuali, il palestinese Abdul Azzam e lo yemenita Abdul Majid Zindani».
Alla fine degli anni Ottanta, dopo la morte di Zia, al Governo sale Benazir Bhutto: «Con Hamid Gul abbiamo organizzato un fronte di partiti per contrastare il premier: fu Nawaz Sharif a chiedermi di incontrare Osama. Ci furono, nel corso degli anni, cinque meeting, ma quello storico avvenne con un pranzo al Green Palace di Medina. Osama gli chiese se amasse la Jihad: "Certamente", rispose Sharif. Osama allora gli tagliò davanti tre diverse porzioni di riso: "Questa è la più grande: rappresenta l'amore che nutri per i tuoi figli, questa di dimensioni inferiori è l'amore per i tuoi genitori, la più piccola indica la tua devozione per la jihad". Sharif - racconta ancora Khalid Khawaja - chiedeva allo Sheikh un contributo di otto milioni e mezzo di dollari; ne ricevette qualcuno di meno, ma in compenso fu introdotto alla corte reale saudita che poi lo ha sempre protetto».
Le forze armate pakistane sono un apparato complesso e a volte sfuggente, persino per chi le manovra. «Con Musharraf sono state insediate nell'Isi cellule sotto il diretto controllo di Washington, dove gli ufficiali di grado più alto sono sconosciuti ai team che vengono impiegati sul campo». In questi anni Washington, come fece negli anni Ottanta con i mujaheddin, ha tentato di infiltrarsi tra i talebani, puntando su quelli più moderati: Isi e Cia hanno fondato la Jamiat Khudamul Fourqa (la Società del Corano) e la Jaishul Muslim per ispirare un golpe contro il Mullah Omar. Invariabilmente questi gruppi, dopo aver intascato i soldi, si uniscono ai talebani: «L'Occidente si illude - commenta ironicamente Khalid - quando è in corso la jihad tutti i musulmani sono uguali, non ci sono moderati o estremisti».

TRA ESERCITO E ISLAM

Hamid Gul
Capo dell'Isi negli anni Ottanta e Novanta, è il più noto tra gli ufficiali jihadisti
Mohammoud Ahmed
Era il capo dell'Isi in visita a Washington l'11 settembre 2001. Sollevato dall'incarico, rifiutò la promozione a capo di stato maggiore
Mohammed Aziz
Capo di stato maggiore dall'ottobre del 2001, pur essendo ostile a Enduring Freedom fu incaricato dell'assistenza logistica
Zaheerul Abbassi
Guidò negli anni 90 il tentativo di instaurare in Pakistan un regime teocratico. Alcuni ufficiali del suo gruppo conducono ancora attività di guerriglia e hanno organizzato un attentato a Musharraf
Javid Nasir
Ex leader del partito islamico Tablih Jamaat, fu capo dei servizi militari con Sharif, che fu costretto dalla Cia a silurarlo

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