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«Benazir salverà il Pakistan»

di Alberto Negri

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18 Ottobre 2007

ISLAMABAD. Dal nostro inviato
Israr Shah oggi avrebbe voluto essere a Karachi per accogliere il ritorno, dopo otto anni di esilio, di Benazir Bhutto. Ma il suo consigliere politico in due governi, uno dei capi più rispettati del Partito popolare, non potrà esserci. Benazir, dalla Bilawal House, il suo quartier generale di Murtaza, lo chiamerà subito al telefono per consultarlo, così come ha fatto un mese prima delle elezioni presidenziali, quando con grande coraggio e forza d'animo Israr Shah è uscito dopo due mesi di ospedale, con le gambe amputate e una mano maciullata, per guidare la contestazione a Musharraf.
Israr, 51 anni, medico e tre figli, è entrato nel partito 35 anni fa e da allora è sempre stato un fedelissimo dei Bhutto. «Ero un giovane studente, nato da gente povera e il padre di Benazir, Zulfikar Alì Bhutto, prometteva il riscatto di tutto il popolo pachistano».
Il 17 luglio Israr Shah è sopravvissuto a un attentato con 20 morti e 90 feriti. «È accaduto intorno alle sette di sera, non lontano dalla moschea Fazil di Islamabad, a un raduno dell'opposizione con il Partito popolare e l'associazione degli avvocati. Ero seduto vicino al palco dove aspettavamo il capo della Corte suprema Iftikhar Chaudhry, da mesi in collisione con il presidente. Un'esplosione ha devastato tutto e mi sono trovato in un mare di sangue, tagliato a metà ma vivo».
In quei giorni Islamabad era scossa dai massacri: nell'assalto alla Moschea Rossa delle truppe speciali erano appena rimasti uccisi più di un centinaio di militanti islamici che avevano sfidato Musharraf con una sorta di colpo di stato integralista nel cuore della capitale.
«Questa società ha una cultura politica imbevuta di violenza e sono grato a Benazir di non avere rinunciato a tornare, mostra il coraggio che serve alla democrazia. Ma l'attentato di cui sono stato vittima con tanti altri compagni di partito, uccisi e feriti, conferma le sue parole: «Più delle minacce dei radicali islamici - ha detto Benazir - temo il Governo, le sue strutture parallele di ex generali e agenti dei servizi che potrebbero eliminarmi. Neppure io credo che siano stati gli integralisti il 17 luglio a farci saltare in aria: per noi sono un minaccia ma non la principale».
I complotti in questo Paese di 160 milioni di persone, armato con l'atomica, percorso da ondate sismiche di islamismo, con frontiere ribollenti per la guerriglia talebana, non sono teoremi giudiziari ma eventi sanguinosi che si ripetono in ogni fase critica per il passaggio del potere, dominato per la metà dei suoi 60 anni di storia da militari e colpi di stato.
Due giorni prima dell'attentato, Israr Shah aveva rivelato pubblicamente le pressioni e le minacce ricevute dai servizi di sicurezza che volevano convincerlo a ritirare una denuncia contro il ministro del Commercio Akhtar e il fratello Haroun, proprietario di grandi zuccherifici, che stava varando una legislazione ad hoc per le aziende di famiglia. «Non posso dire che gli eventi siano collegati, però le minacce le ho ricevute dagli apparati dello Stato, mai dagli islamici. E soprattutto sono stati colpiti il Partito popolare e l'associazione degli avvocati, i motori della protesta contro Musharraf. Anche la dinamica dell'attentato non è chiara: per la polizia si è trattato di un commando suicida ma questa versione non è stata poi confermata. Così come non si è avuta neppure una rivendicazione».
Israr spiega, da un punto di vista di parte, cosa rappresenta Benazir per i suoi seguaci e la storia politica del Pakistan. «Benazir è l'erede del padre, l'uomo che quando salì al Governo fece un gesto simbolico e decisivo: assegnò una carta di identità nazionale a tutti i pachistani, a decine di milioni di persone che avevano appena un nome, privati di ogni diritto di parola. Decise che l'istruzione per i poveri era gratis, fece nazionalizzare le scuole e le industrie più importanti, parlò e agì in nome del popolo e non di un'élite che lui conosceva bene. Erano idee socialiste, che poi attuò con le nazionalizzazioni e la riforma del latifondo: le gente ignorava le ideologie ma pensava che Zulfikar venisse incontro ai loro bisogni. Il generale Zia ul Haq lo fece impiccare nel '79, due anni dopo il colpo di stato, perché sapeva che con lui vivo non avrebbe potuto trascinare il Paese verso l'islamismo e la deriva autoritaria».
Certo il partito dei Bhutto rimane ancora la forza politica di massa più organizzata del Paese ma non come un tempo. Anche la verità storica su Zulfikar Bhutto è un po' diversa dall'iconografia di Israr Shah: aiutato da una straordinaria capacità oratoria, fu più demagogo che riformatore, si rivelò più autoritario che democratico, fondando le milizie di partito e indulgendo in un culto della personalità di stile maoista. Per stare a galla fece grandi compromessi con gli agrari, sacrificando le richieste popolari, e, alla fine, fu proprio lui a scegliersi Zia ul Haq come capo di stato maggiore.
Ma Bhutto è stato anche l'uomo politico più popolare del Paese dopo Alì Jinnah, il fondatore del Pakistan con la spartizione dell'India britannica nel 1947. Sua figlia, l'affascinante Benazir, molto amata dai suoi, molto detestata dagli avversari, ne è davvero l'erede, anche mediatica. Viene da una dinastia del Sindh che la politica ha falcidiato: il padre giustiziato, un fratello, Shahnawaz, avvelenato in Francia nell'85, un altro, Murtaza, ucciso in un comizio nel '96 a Karachi. Adesso l'accordo con Musharraf - che dovrà proteggere la Bhutto per sopravvivere politicamente - garantisce a Benazir un ritorno in scena nel mezzo di una crisi lacerante.
«I problemi sono gravi - ammette Israr - ma verranno affrontati con i metodi politici, non con le baionette e la violenza. Con i regimi militari, da Zia a Musharraf, in Pakistan è sempre salito alla ribalta l'estremismo: i generali hanno strumentalizzato gli islamici, poi sono finiti fuori controllo e il Paese sta pagando anche oggi un prezzo altissimo». Con una smorfia di dolore, i punti di sutura ancora freschi, Israr Shah, sfinito, si stende sul letto a fianco della scrivania. «Sono un laico, un secolarista, e credo che ce la faremo ancora una volta, Benazir ci salverà». Questa è, in Pakistan, la religione dei Bhutto, che oggi, tra entusiasmi e tensioni, muoverà folle oceaniche e adoranti.

LA SCHEDA

Ex premier carismatico
Benazir Bhutto, 54 anni, è stata premier del Pakistan la prima volta nel 1988, per soli 20 mesi; la seconda volta dal 1993 al 1996. Ha dovuto lasciare il Paese a causa di accuse di corruzione. È stata la prima donna (a 35 anni) a guidare un Governo nel mondo musulmano. È figlia di Zulfikar Alì Bhutto, uno degli uomini politici più popolari del Paese, impiccato nel 1979 due anni dopo il colpo di Stato militare di Zia ul Haq
All'opposizione
La Bhutto rientra oggi a Karachi dopo un esilio (per i procedimenti di corruzione) iniziato nel 1999: ha vissuto a Dubai e a Londra; è presidente a vita del Partito popolare, seconda forza di opposizione, e intende guidare il Partito nelle elezioni del 15 gennaio. Il presidente Pervez Musharraf - che ha ottenuto la rielezione dal Parlamento il 6 ottobre ma deve attendere il verdetto della Corte suprema sulla legittimità della sua candidatura - aveva suggerito alla Bhutto di rinviare il rientro
Ritorno ad alto rischio
Ci saranno 15mila agenti a proteggere la Bhutto che, arrivata all'aeroporto di Karachi, salirà su un container da trasporto marino blindato, con vetri antiproiettile, e percorrerà 18 ore di tragitto fino al mausoleo del padre della patria Mohammad Alì Jinnah; i commando delle forze speciali saranno dispiegati sui tetti e sui ponti. Il Partito popolare ha mobilitato un milione di persone per accogliere Benazir Bhutto che ha ricevuto molte minacce: «Non sono preoccupata - ha detto ieri - perché un vero musulmano non uccide una donna»

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