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La Bhutto accusa i servizi

di Alberto Negri

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20 Ottobre 2007

ISLAMABAD. Dal nostro inviato
«La strage di Karachi con i suoi 140 morti è una sorta di 11 settembre alla pachistana, ma qui i terroristi non hanno bisogno di venire da fuori: sono infiltrati e con forti appoggi nei servizi di sicurezza». Le parole di Israr Shar, consigliere politico di Benazir, vittima il 17 luglio di un attentato a Islamabad che gli amputò le gambe, sono quasi le stesse che ci aveva consegnato in un'intervista rilasciata il giorno prima della strage. «Con il suo ritorno - aveva detto - Benazir rischia la pelle» aggiungendo di temere gli integralisti ma soprattutto gli apparati "deviati" dello Stato.
Benazir Bhutto, in una conferenza stampa nella residenza di Karachi, ha rivelato ieri di essere stata informata dai servizi di un Paese amico che «quattro squadre di attentatori suicidi, dall'Afghanistan, dal Pakistan, di al-Qaida e di Karachi erano pronte per uccidermi». Non ha spiegato perché, nonostante gli avvertimenti, non abbia abbreviato il suo percorso in città, dove è stata accolta in un trionfo di folla, continuando invece la sfilata nel cuore della notte. «Non accuso il Governo - ha aggiunto ieri la Bhutto, ma certi individui che abusano della loro posizione e del loro potere».
La Bhutto è apparsa più che mai combattiva, affermando che «l'attentato non è stato nei confronti di una persona ma contro la democrazia». «Noi comunque non ci fermeremo» è stata la sua parola d'ordine. E ha confermato che intende guidare il suo Partito popolare nelle elezioni di gennaio.
La stessa Bhutto ha additato come responsabili dell'attacco, che ha ucciso 136 persone, elementi dei servizi legati al regime di Zia ul Haq, un mondo di "ex", sempre in attività, che alimenta il fanatismo. Le autorità pachistane tendono ad accreditare la tesi di un commando suicida di talebani agli ordini di Baitullah Meshud, attivo nel Waziristan, l'area tribale ai confini con l'Afghanistan, che aveva lanciato minacce esplicite a Benazir. Il problema è che una cosa non esclude del tutto l'altra.
In un altro Paese le ipotesi di coinvolgimento di apparati dello Stato nella violenza estremista possono apparire teorie da dimostrare: qui costituiscono una realtà davanti agli occhi di tutti. A Karachi c'è una rete capillare di madrasse che alimenta l'integralismo più radicale: in tutto il Pakistan le scuole religiose sono 16mila e il Governo, dopo anni di "lotta al terrorismo", non ne ha chiusa neppure una. Il presidente Musharraf ha messo le mani sugli elementi stranieri di al-Qaida ma si è ben guardato dal toccare nel vivo i rapporti oscuri delle istituzioni con il terrorismo. E quando ci ha provato è stato bersaglio di tre-quattro attentati.
Estremismo islamico e terrorismo fanno parte del "Deep State", dello "Stato profondo" pachistano. E forse non potrebbe essere diversamente dopo l'islamizzazione inaugurata con l'ascesa del generale Zia ul Haq, colui che impiccò il padre della Bhutto nel '79. Con i finanziamenti americani e sauditi, il generale, morto in un misterioso incidente aereo nell'88, mise il Pakistan al servizio della guerra santa dei mujaheddin afghani contro i sovietici.
«Quella Jihad non è mai finita, continua ancora oggi» dice Khalid Kawaja, ex capo negli anni '80 dell'Afghan Bureau all'Isi, i servizi segreti militari. Kawaja - in un'intervista al Sole-24 Ore del 10 ottobre - ha ammesso senza difficoltà di avere organizzato cinque incontri tra Osama bin Laden e l'ex premier Nawaz Sharif per finanziare un fronte di politici e generali filo-integralisti. Kawaja, che fece da collegamento tra il giornalista americano Daniel Pearl e al-Qaida, che lo decapitò a Karachi, è un ex agente per modo di dire, ripescato per fare da mediatore con gli islamici asserragliati nella Moschea Rossa di Islamabad, dove l'11 luglio ci furono un centinaio di morti. Risiede in una villa della capitale ospitando la famiglia del mullah-martire Abdul Rashid Ghazi.
L'ex capo dell'Isi, Hamid Gul, ogni giorno rilascia interviste nella lussuosa magione di Rawalpindi e si dichiara un grande sostenitore dei Talebani, che per altro iniziarono la loro marcia verso la conquista di Kabul nel '94-95 appoggiati con convinzione da Nasirullah Babur, il ministro degli Interni del secondo Governo di Benazir Bhutto, oggi preoccupata per il rischio di talebanizzazione dello Stato.
Al riguardo, la signora Bhutto può leggere la lista di 22 pachistani, funzionari, tecnici e membri del suo Partito popolare, che occuparono posti di primo piano al ministero della Difesa del Mullah Omar: l'elenco, con nomi e cognomi, è contenuto nelle memorie di Wahid Mozdah, ex braccio destro dell'ex ministro degli Esteri talebano Ahmad Muttawakili, oggi una sorta di consulente sul regime del Mullah Omar.
Il presidente Musharraf, manovratore dei gruppi islamici per guerriglia e attentati contro le forze indiane in Kashmir, che hanno favorito così il suo colpo di Stato del '99, ammette nell'autobiografia in inglese, che in Pakistan è stato creato una sorta di «mostro di Frankestein» dell'Islam radicale. Chi si è avvicendato al potere ha strumentalizzato a scopi politici e personali gli islamici.
Il vero Governo del Pakistan, un Paese con l'atomica, è un esecutivo ombra, responsabile di omicidi politici, attentati, traffico di armi e droga, che sostiene direttamente o indirettamente gruppi terroristici e movimenti di guerriglia islamici. Il patto per riportare ordine e constrastare il terrorismo non può passare soltanto da una fragile intesa tra la signora Bhutto e Musharraf, sempre più in bilico, ma deve fare i conti con questo "Stato profondo" e parallelo. C'è solo da sperare che questo 11 settembre alla pachistana possa contribuire a compattare il Paese, altrimenti assisteremo a una resa dei conti ancora più lacerante, un'altra fase destabilizzante in un'area del mondo esplosiva. Forse ancora più dell'Afghanistan, come già apparve con una certa chiarezza nel settembre 2001, è il Pakistan il vero fronte della guerra al terrorismo: le soluzioni offerte dai Governi militari per ora non hanno garantito stabilità ma soltanto frenato la disgregazione, una riflessione da tenere presente nel momento in cui tra i generali è forte la tentazione di dichiarare la legge marziale.

LE IPOTESI SULLA STRAGE

L'ex dittatore
L'ex premier pachistano Benazir Bhutto ha accusato i seguaci del passato regime di Zia ul Haq (nella foto sotto) di aver ispirato l'attentato contro di lei a Karachi. A volerla uccidere, ha detto, sono «i dignitari del vecchio regime del generale Zia, che sono oggi dietro l'estremismo e il fanatismo». Zia arrivò al potere nel 1977, dopo un colpo di Stato, e fece uccidere il padre della Bhutto nel 1979; morì in un misterioso incidente aereo nel 1988
I servizi segreti
La Bhutto ha anche accusato l'intelligence, sostenendo la necessità di «ripulire i servizi segreti da alcuni elementi»; una parte di loro «era andata in pensione e poi è stata reimpiegata. Hanno parecchio potere, per loro rappresento un pericolo: se riporto la democrazia loro perdono di influenza».
Il generale Musharraf
«I talebani e gli estremisti islamici non possono agire da soli - ha detto la Bhutto - non possono organizzare i loro attentati-suicidi da una grotta in montagna. Hanno bisogno di una logistica, di cibo, di armi, di qualcuno che li comandi». Bhutto sostiene che quello che è successo è colpa del presidente Musharraf (nella foto qui sopra) «perché non è stato capace di prevenire questa tragedia»
I gruppi di kamikaze
L'ex premier ha rivelato che erano quattro le squadre suicide pronte a colpire: «Una di elementi talebani, una di al-Qaida, una di talebani pachistani e la quarta, credo, di Karachi». La Bhutto ha aggiunto che un Paese amico le aveva passato i numeri di telefono per risalire alle squadre suicide e che lei avvisò Musharraf con una lettera del 16 ottobre

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