La Tobelmuhlesaal è stata confermata. Tra lunedì e ieri la botta alla Borsa di Mumbai è stata dura: meno 12%. Ma il "Ricevimento Indiano" sitar, pollo tandoori, manager informatici di Bangalore e birra svizzera alla spina comunque ci sarà. «Mai pensato di cancellarlo », dice stupito che se ne dubiti Ajay Khanna della Cii, la Confindustria indiana, l'organizzatore della festa. Lo spettacolo del capitalismo, che qui ha sempre celebrato se stesso e a volte beneficiato gli altri, deve continuare. Non che il World Economic Forum, la grande festa di Davos che si apre oggi e finisce domenica, sembri così gioioso come gli altri anni.
Saranno pochi anche i ricevimenti.
Il nemico, "R" come recessione, non era mai stato così alle porte. Il titolo dato al Forum di quest'anno, «Il potere dell'innovazione condivisa », sembra piuttosto inadeguato alla situazione. È generico: chi amministra quel potere e qual è l'innovazione che saranno capaci di contenere le crisi che giorno dopo giorno, fino a domenica, assedieranno anche Davos? L'instabilità finanziaria è cronaca fresca e quotidiana.
Ma ci sono anche le crisi politiche regionali che corrodono lo status quo globale: Karzai e Musharraf verranno qui a parlare di un paio fra le peggiori. C'è uno spostamento lento ma visibile di forze economiche e politiche da Ovest verso Est e Sud del mondo. E soprattutto fra nove mesi ci saranno le presidenziali americane: nessun vertice di capi di Stato o di banchieri, nessun processo di pace né riforma dei mercati e tanto meno un forum informale come Davos dirà qualcosa d'importante fino al primo martedì di novembre di quest'anno.
Le crisi definiranno l'andamento quotidiano del World Economic Forum più di quanto sia scritto nel programma ufficiale già stampato. Forse, con o senza emergenze globali, dopo oltre 20 anni il modello di Davos incomincia a invecchiare: troppa gente in un solo posto per decidere qualcosa di utile, si dice. Da qualche anno ci si chiede sempre più spesso a cosa serva questo assembramento di persone che contano ma che qui non decidono. Tuttavia se Davos è riuscito a sconfiggere la sua immagine contraria e negazionista del forum di Porto Alegre, è perché non è mai stato l'elogio della globalizzazione ma quasi sempre una sua versione critica.
Davos non è il luogo dove si prendono decisioni. Per questo il segretario al Tesoro Henry Paulson ieri ha deciso di rimanere a Washington ad occuparsi della crisi; e il premier turco Recep Erdogan ha preferito restare a scrutare le frontiere con il Kurdistan iracheno. Davos è solo la scena sulla quale si mostra tutto insieme il capitalismo buono e cattivo, furbo e idealista, i sazi e gli affamati della globalizzazione. Chiarito questo, ci sarà una ragione se anche quest'anno, in giorni di freddo e di neve, 2.500 persone sono salite fin quassù, quasi tutte senza sci e scarponi. Fra loro ci saranno 27 capi di Stato, 11 ministri ( compreso Tommaso Padoa- Schioppa, crisi italiana permettendo) e i responsabili di 63 organizzazioni internazionali; 1400 "business leaders" le cui imprese rappresentano il 22% della capitalizzazione mondiale di mercato; molte delle banche responsabili dell'attuale crisi finanziaria; 14 dei principali banchieri centrali d'Occidente e d'Oriente, i più importanti fra gli europei (anche Mario Draghi, sempre che la crisi permetta a qualche italiano di lasciare Roma). La gran parte dei partecipanti ha pagato 42.500 franchi svizzeri per essere membro del Forum e altri 18.000 per venire a Davos. Non sono molti per le loro tasche. Ma un capitalismo così attento al costo della manodopera, al punto da affrontare la potenziale minaccia di una generazione di giovani globalizzati ma sottopagati, non spende soldi per niente.