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Autoritratto di una nazione

di Mario Margiocco

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2 FEBBRAIO 2008

La moderna presidenza americana è figlia nel '900. E anche il sistema dei partiti, così come lo conosciamo, è assai più un frutto del 900 che non della seconda metà del secolo precedente, poiché solo il '900 ha sdoganato davvero i democratici dall'eredità di essere stati il partito ribelle del Sud. Del lontano passato restano solo alcune figure presidenziali, essenzialmente quattro, George Washington, Thomas Jefferson, Andrew Jacskson e la più grande di tutte, Abraham Lincoln, l'uomo che ha definito l'America moderna. Ma la presidenza è diventata il centro della vita civica americana solo con Theodore Roosevelt, Woodrow Wilson, Franklin Roosevelt. Un percorso proseguito poi con Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, Reagan e, probabilmente, Clinton.

A volte i presidenti vengono scelti per disperazione, come avvenne nel '68 con Richard Nixon, volto antipatico ma noto in una situazione di caos, entrato nella memoria come uno dei peggiori e dei migliori insieme. Ma quando la scelta è partecipata come quella in corso oggi, quando si avverte in molti elettori la coscienza di un passaggio cruciale per i destini della nazione in un momento difficile in casa e fuori, allora la campagna presidenziale diventa l'autoritratto della nazione. Perchè l'istinto politico di una cultura essenzialmente politica (l'Europa ha culture di sangue e tradizione plurisecolare), è quello di scegliere l'uomo - o la donna, questa volta - che sia il proprio autoritratto. Che abbia la fiducia degli americani e che dimostri loro fiducia, secondo la formula di un Eisenhower uscito nel '60 in disgrazia e da allora molto rivalutato.

Qual è l'autoritratto migliore possibile oggi? Non Mitt Romney, che ricalca il mito reaganiano. L'era Reagan è finita, resta una parentesi molto amata da molti e rispettata anche da numerosi avversari, ma conclusa.

Hillary Clinton ripropone inevitabilmente, data anche l'attiva presenza del marito, un ritorno agli anni '90. Per quanto possa sembrare un improbabile "ritorno al futuro", non è per nulla da sottovalutare, e non solo perché risultati e sondaggi per ora le danno piuttosto ragione. Bill Clinton, con a fianco la moglie, compì infatti nel 1992 e poi ancora nel 1996 un'operazione eccezionale. In pratica da solo costrinse i democratici ad abbandonare posizioni spostate a "sinistra" e per 25 anni sempre perdenti, li riposizionò al centro, e conquistò per due volte la Casa Bianca, salvando il partito dall'irrilevanza. Non bisogna dimenticare che tutti i presidenti repubblicani dalla seconda guerra mondiale in poi sono stati rieletti salvo Bush padre, mentre dei democratici il solo Clinton fu rieletto. E non bisogna dimenticare che anche se il numero dei presidenti eletti dal ' 45 in poi è di cinque per entrambi i partiti, i repubblicani hanno "regnato" quasi il doppio. Con un Congresso che, a parte gli anni 90, è stato quasi sempre democratico. Ma l'identità nazionale era meglio rappresentata dai repubblicani. Quindi, il nome Clinton saprà forse di minestra riscaldata, oltre che di dinastia, ma sa anche di vittoria.

Barack Obama è il nuovo. E la tentazione di rinnovare davvero ha spesso molta presa sull'elettorato americano, particolarmente nei monenti difficili come quello attuale. Certo la netta maggioranza - 235 milioni di americani su 303 sono "caucasici", cioè bianchi europei - ha qualche difficoltà fisica a identificarsi, ma non sembra più un problema insormontabile, anche se non va sottovalutato. Comunque, Obama ha il suo fascino e lo sta dimostrando.

John McCain è la più pura tradizione, corretta però dalle posizioni personali che sono ben note. Conservatore ma non radicale. Con idee precise ma pronto a collaborare. Repubblicano ma non erede di un'era che si sta chiudendo e già si è chiusa. Un battitore libero, almeno in parte. La forza di McCain sono le debolezze dei due avversari, che alla fine diventeranno uno. Ma né Hillary né Obama sono fortissimi. Anche se la stagione, con le responsabilità che giustamente vengono attribuite ai repubblicani per l'economia, il conflitto in Irak e altro, è tutta per i democratici.
Alla fine sarà probabilmente una antica regola della politica americana del '900 a decidere. Quella secondo cui nei momenti di crisi economica sono favoriti i democratici, e questo è il caso attuale. E nei momenti di crisi di identità nazionale, che cos'è l'America e dove deve andare, sono favoriti i repubblicani, che la Storia ha posto come gli interpreti più genuini, oltre che i padri, del moderno americanismo, da Lincoln in poi. Valutando questo, se c'è più economia o più ricerca di identità e destini nelle preoccupazioni degli americani, o se il tema economico non venga alla fine trasformato in una questione di identità, ciascuno può azzardare, con prudenza, qualche previsione.
mario.margiocco@ilsole24ore.com

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