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Nel Kosovo indipendente vincono solo gli Stati Uniti

di Silvio Fagiolo

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17 febbraio 2008

Dall'Onu alla Nato alla Ue, dalla Russia alla Serbia: con l'eccezione degli Usa, sono molti i perdenti nell'indipendenza del Kosovo. Metafora, anche per questo, di una crisi le cui radici risalgono lontano nel tempo, dalla storica disfatta dei serbi contro i turchi alla quale seguì la dominazione ottomana. Sconfitta, in primo luogo, delle Nazioni Unite con le sue sovranità invalicabili. Il potere di interdizione di un Paese, la Russia, ha impedito che la transizione dall'autonomia all'indipendenza sorvegliata avvenisse nel contesto di un consenso universale.
La decisione ultima può restare nelle mani di Paesi tutt'altro che democratici, secondo la logica istituzionale scaturita da un conflitto della prima metà del secolo scorso che si estende al secolo appena cominciato.
Sconfitta della Nato, che nel Kosovo aveva posto fine a un genocidio. Il consenso unanime della grande alleanza occidentale aveva dato legittimità all'intervento, aggirando il veto russo in Consiglio di sicurezza. Ma la campagna militare non ha portato né la pace perpetua né l'istantanea giustizia. La stabilità strategica non è stata coerente con i piani di ricostruzione. Ancora una guerra vinta e forse una pace perduta.
Sconfitta dell'Unione Eropea, che per di più si accinge a riconoscere in ordine sparso l'indipendenza che proclama oggi Pristina e a presidiarla con proprie forze. Ma la secessione potrebbe un po' ovunque nel Continente indurre a sostenere cause che si credevano perse, rivoluzioni senza speranza, a fomentare nuovi separatismi. L'effetto domino spaventa molti Governi comunitari, dalla Spagna alla Bulgaria. Si conferma ostico alla grammatica comunitaria quello spazio, i Balcani, dove «un mosaico ricchissimo spesso trasforma una distanza geograficamente irrilevante nella frontiera fra due mondi», come scrive George Steiner. Dopo l'impiego della forza contro la Serbia ad opera della Nato, l'Unione non è stata in grado di raccogliere i consensi necessari con le leve dell'economia e della politica. Eppure erano stati questi gli strumenti che nel 1989 avevano rimodellato l'Europa, uscita da una lunga notte sovietica appena interrotta dai fugaci bagliori di Berlino e di Praga, dai roghi di Ungheria e Cecoslovacchia. La prospettiva dell'ancoraggio all'Unione Europea, che pure aveva spento altri irredentismi in Europa, sembra di difficile applicazione nella geopolitica fluida dei Balcani. Qui gli oggetti si globalizzano ma gli individui si tribalizzano, come dice Ismail Kadaré, «in nome di fantasmi che ognuno evoca nella propria solitudine».
Sconfitta della Serbia, che pure con il voto di due settimane fa aveva operato una scelta chiaramente in favore dell'Europa ma che stenta a riesaminare con sguardo freddo il suo passato, continua a nutrire miti inaccessibili a critiche e revisioni, non riesce a uscire da un proprio dostojevskiano sottosuolo, a sbarazzarsi da illusioni che possono sopravvivere anche in regime democratico. La Serbia si salda in un nazionalismo ostinato e intransigente contro l'amputazione di territori di fede cristiana ortodossa considerati come la propria culla storica. Ma non ha la Russia rinunciato all'Ucraina, a quella Russia di Kiev che era stata il tramite con Bisanzio e il seme della cultura granrussa, dalla lingua alla religione?
Sconfitta della Russia, con la sua difesa ad oltranza dell'intransigenza serba. La Russia di Putin si conferma sempre in bilico tra una piena adesione alle regole di un multilateralismo responsabile e la riaffermazione, in larga misura velleitaria, di una logica di grande potenza espressa stavolta attraverso la tradizionale tutela degli slavi del Sud. Emerge invece, ancora una volta, la forza degli Stati Uniti, che hanno a suo tempo promosso l'intervento militare per impedire la pulizia etnica, sono sempre stati fautori di una piena indipendenza della regione e dettano tempi e modi della politica, fino all'ora scelta per proclamare l'indipendenza a Pristina, in linea con le esigenze dei networks televisivi americani.
È solo da auspicare che la rete dei rapporti che si sono creati in questi anni intorno al Kosovo, il permanere di un forte presidio internazionale, dell'Unione Europea e della Nato, per la supervisione del cammino fino alla piena indipendenza, le norme transitorie nei rapporti tra Pristina e Belgrado elaborate dalla mediazione internazionale, impediscano alla crisi di innescare nuovi sommovimenti, oltre il disconoscimento, scontato, della secessione da parte di Serbia e Russia. Restando invece escluse ritorsioni a Mosca e a Belgrado, sollevazioni o atti di terrorismo nelle terre contese oppure riflessi in Bosnia, dove la convivenza di serbi e musulmani è oggi meno traumatica di ieri, le tentazioni irredentiste di una Grande Albania. In fondo nei Balcani non ci sono solo tradizioni di faide e guerre ma anche di convivenza e riconciliazione. La figlia del principe Lazar, l'eroe sfortunato della battaglia del Kosovo del 1389, in segno di pace, fu poi data in sposa al figlio del sultano che lo aveva sconfitto.

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