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Il caro cibo minaccia il Programma alimentare mondiale

di Andrea Franceschi

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28 aprile 2008

«Il caro petrolio e l'aumento dei prezzi di grano, riso e mais ha fatto crescere del 55% il costo delle nostre operazioni». A parlare è Vichi De Marchi, portavoce per l'Italia per il World Food Programme, l'organismo delle Nazioni Unite che si occupa di risolvere il problema della fame nelle zone più disagiate del mondo. Secondo i dati della Fao, in un anno il grano è aumentato del 130%, il riso del 74%, la soia dell'87% e il mais del 53%. Rincari che, uniti alle quotazioni record del petrolio, hanno messo in crisi milioni di persone nel sud del mondo. «A Bangkok, un mese fa, per una tonnellata di riso ci volevano 460 dollari, oggi ce ne vogliono almeno mille» dice Vichi De Marchi. Solo per dare una misura di quello che il direttore esecutivo del Wfp Josette Sheeran ha definito la scorsa settimana uno "tsunami silenzioso". In questi giorni c'è anche lei al meeting di Berna. Qui i rappresentanti delle agenzie Onu si sono riuniti per fare il punto sul problema dell'aumento dei prezzi degli alimentari. Sicuramente Josette Sheeran rivolgerà un appello alla comunità internazionale e ai donatori del Programma alimentare mondiale perché aumentino i loro finanziamenti. La più grande organizzazione umanitaria mondiale infatti è stata duramente colpita dalla crisi. In tre mesi il fondo ha perso il 40% del potere d'acquisto secondo il relatore delle Nazioni Unite per il Diritto all'alimentazione, Jean Ziegler. «Lo scorso 20 marzo – spiega la portavoce italiana Vichi De Marchi – abbiamo dovuto riaggiustare il nostro bilancio per via dell'aumento dei prezzi e chiedere ai nostri donatori altri 750 milioni di dollari. Da trent'anni a questa parte le riserve agricole e quelle d'emergenza, non sono mai state così scarse».
Tante le cause di questo "tsunami silenzioso": l'aumento della domanda di grano e riso dai paesi in via di sviluppo (Cina e India in primis), i cattivi raccolti. E poi la speculazione finanziaria nel mercato delle commodities e gli investimenti di Europa, Stati Uniti e big emergenti come il Brasile nei biocarburanti. E sono proprio questi ultimi a finire per primi sul banco degli imputati. Ziegler, nel corso della riunione delle agenzie Onu a Berna, li ha definiti un "crimine contro gran parte dell'umanita" e ha chiesto una moratoria totale e immediata per almeno cinque anni sulla loro produzione.
E quella dello stop ai biocarburanti è l'unica strada praticabile secondo Roberto Zoboli, professore di Politica economica alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano. «Questa crisi è molto complessa. Alla base di tutto – spiega - c'è un eccesso di domanda di materie prime agricole, specialmente dai paesi in via di sviluppo. A ciò si può rispondere solo con un pari aumento dell'offerta. Ma uno sviluppo in tal senso è bloccato da vari fattori. La speculazione sui mercati finanziari, ad esempio, oltre ad essere di per se un elemento inflazionistico (alla borsa di Chicago il contratto future sul riso è aumentato del 63% da gennaio ndr.), è un incentivo per molti produttori a non offrire quanto potrebbero. Si preferisce infatti stoccare il prodotto in attesa che il prezzo salga, per guadagnarci di più. E poi ci sono le scelte dei governi. Come l'Argentina, che ha aumentato i dazi sulle esportazioni di grano per paura che l'eccessiva domanda globale generasse una carenza nel mercato interno, con conseguenti carestie e disordini interni». Altri grossi produttori come Kazakhstan, Russia ed Ucraina poi, hanno scelto di bloccare per alcuni mesi le esportazioni temendo simili conseguenze. «C'è infine la scelta di Stati Uniti, Unione Europea e Brasile di investire in biocarburanti, destinando terreni agricoli a questo scopo e in tal modo abbattendo la produzione interna. Solo su questo punto – precisa Zoboli - è pensabile arrivare a una soluzione politicamente praticabile, attraverso la moratoria. Porre dei freni ai mercati finanziari è una via tecnicamente molto difficile da seguire».

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