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ANALISI / Mosca torna imperialista

di Silvio Fagiolo

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11 agosto 2008

Un gesto imprudente e forse cinico, all'interno di un ordine carico di tensioni, esposto ai venti di interventi esterni devastanti, e di una democrazia, quella georgiana, che aveva tradito molte delle sue promesse di ennesima rivoluzione colorata. Ma la Russia usa un linguaggio e compie gesti che mal si combinano con la ricerca di nuove regole e istituzioni in un mondo che esce dalla breve illusione della presunta onnipotenza americana.
La Georgia potrebbe rivelarsi il banco di prova decisivo degli orientamenti di politica estera del Cremino, forse il preludio di una stagione diversa. Tanto più che molti si erano chiesti, con il passaggio del testimone da Putin a Medvedev, se non sarebbe intervenuta una presa di distanza dai metodi abrasivi e dai gesti provocatori sapientemente calcolati dell'uomo che aveva pur ridato al suo Paese rango e ricchezza. Medvedev si muove in un vuoto di potere internazionale che spaventa e che lascia temere per altri conflitti sospesi a un filo, a cominciare dall'Iran. La Russia può sentirsi incoraggiata da una presidenza americana al tramonto. Da una Europa che non riesce a uscire dalla sua crisi istituzionale. Da precedenti, come quello del Kosovo, che possono offrire il pretesto per relativizzare il valore delle frontiere internazionalmente riconosciute. La Georgia ricorda come siano tuttora giovevoli e più realistiche identità forti anche sul piano militari, alle quali gli europei hanno sempre guardato con malinconica gelosia.
La Russia dello zarevic Medvedev indica in questi giorni quanto sia difficile per essa seguire una condotta responsabile su nodi fondamentali della politica internazionale, la sovranità energetica degli Stati; la scelta delle loro alleanze militari; il rapporto con quelle che erano un tempo le colonie interne del gigante scomparso con la caduta del muro. All'epoca informe, istrionica di Eltsin era seguita una robusta volontà di riscatto, accompagnata dalla rivalutazione di glorie passate, zariste e sovietiche. Gli stessi comunisti, che pure si considerano i custodi del retaggio sovietico, di fronte alla spregiudicatezza di Putin erano apparsi patetici e antiquati, prigionieri di ideologie smentite dalla storia.
Vedremo l'effetto che sortiranno gli appelli alla moderazione rivolti alla Russia dai singoli Paesi e dalle istanze internazionali. Avremmo pensato che un Paese allenato al gioco degli scacchi non commette l'errore che l'avversario si aspetta da loro. L'invasione della Georgia o la guerra civile istigata dall'esterno finiscono infatti per dare ragione a quanti ritengono, a cominciare dall'attuale governo a Tbilisi, che in presenza delle tradizioni storiche dense e sottili di Paesi confinanti solo passando nell'orbita di una istituzione atlantica o europea si può sfuggire alla Russia. Tanto più che la Georgia è il naturale entroterra logistico degli interventi condotti al di là dell'Europa, nel cuore stesso dell'arco di instabilità, di un'Alleanza atlantica cui non basta il potere di attrazione del più forte se è esposta alle diffidenze e resistenze del più debole. Ne esce esaltata l'esperienza dei Paesi baltici, che con la doppia appartenenza alla Nato e all'Unione europea hanno ottenuto una cauzione che li libera definitivamente dalla loro geografia prima ancora che dalla loro storia. È inevitabile che Paesi come l'Ucraina si sentano anche essi garantiti solo da un patto automatico di assistenza reciproca. Avranno ragione ulteriore per insistere per essere nella Nato a pieno titolo, dopo la battuta di arresto di Bucarest. Sarà più difficile per gli europei sollevare obiezioni. Mentre ancora più impellente finisce per apparire la necessità per l'Europa di non trascurare rotte energetiche alternative a gasdotti e oleodotti controllati dalla Russia.
La Russia aveva sinora accettato, pur se con riserva, la separazione dai suoi satelliti, dal cuore granrusso dell'impero, come l'Ucraina, l'indipendenza di altri Stati nonostante la presenza di larghe minoranze. Si può solo auspicare che una Russia scaltra e realista, rotta alla logica dei rapporti di forza non solo locali, vorrà desistere da risposte azzardate e spregiudicate, da rotture traumatiche. Non è il modo di prepararsi alle possibilità che offrirà una nuova presidenza americana, per coltivare invece l'inimicizia altrui, per ricostruire l'amor di patria intorno all'idea del collettivo chiuso, costantemente minacciato. Dove finirebbe l'interdipendenza dei mercati e degli investimenti, l'esigenza di evitare una nuova militarizzazione dell'economia? Non vorremmo una conferma della sconsolata affermazione di Siniavskij, secondo il quale ogni riformismo russo, soprattutto in politica estera, si palesa alla fine altrettanto impossibile quanto «trasformare una piramide nel Partenone».

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