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Ecuador, referendum per la nuova costituzione «socialista»

di Roberto Da Rin

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28 SETTEMBRE 2008

Un referendum che mira a una riforma costituzionale in un piccolo Paese latinomericano, l'Ecuador, potrebbe passare quasi inosservato. Invece il voto di oggi ha una notevole importanza nazionale e regionale, sia per i contenuti della Carta Magna, sia per gli equilibri politici nella regione. Oltre al fatto che l'Ecuador, 14 milioni di abitanti, è un Paese petrolifero dove sono presenti compagnie internazionali, interessate a capire le nuove politiche energetiche del Paese.

Il presidente Rafael Correa, 45 anni, ha chiamato alle urne, per la quarta volta in tre anni, 9,7 milioni di ecuadoregni che dovranno rispondere Si o No al testo referendario.
La lunga campagna elettorale a favore del Si ha puntato sulle seguenti argomentazioni: il testo proposto consente la rielezione del presidente in carica, offre nuovi diritti di cittadinanza a una popolazione afflitta dalla povertà, inserisce il concetto di plurinazionalità a lingue e minoranze indigene (quechua e shuar), e vieta l'installazione di basi militari straniere. Promuoverebbe inoltre nuovi principi di inclusione sociale.

Tuttavia l'opposizione al presidente Correa, tutta schierata con il No, e concentrata principalmente nella regione di Guayaquil, ricca e affacciata sul Pacifico, teme un'eccessiva concentrazione di potere nelle mani di Correa, una riforma del potere legislativo e giudiziario, una nazionalizzazione delle risorse energetiche e una statalizzazione dell'economia.

Con il No si è schierata anche la Chiesa cattolica, secondo cui la vittoria dei referendari guidati dal presidente Correa favorirebbe l'aborto e i matrimoni tra omosessuali.
Qualora vinca il Si, vi sarebbe un cambio radicale nell'impianto economico del Paese: i 444 articoli della nuova costituzione, se approvati dal referendum, determinerebbero secondo Jaime Carrera, analista politico di Quito, «un vero e proprio nuovo modello di sviluppo». Mentre Franklin Ramirez, docente alla Facoltà latinoamericana di Scienze Sociali (Flacso), lo definisce uno schema nazionalista dove lo Stato è il principale attore di politica economica. E «può avere successo solo se il prezzo del petrolio rimane alto»; le esportazioni di greggio rappresentano infatti il 25% del prodotto interno lordo dell'Ecuador.

Il Si condurrà a una nuova chiamata elettorale amministrativa nei primi mesi del 2009.
Le elezioni di oggi hanno un significato politico anche a livello regionale: qualora vinca il Si, vi sarebbe un rafforzamento della sinistra radicale in America Latina, ovvero il Venezuela di Hugo Chavez, la Bolivia di Evo Morales. Ciò accade in una fase storica in cui altri Paesi latinoamericani, pur con toni più sfumati, hanno scelto presidenti di sinistra: si pensi al Brasile di Lula da Silva, all'Argentina di Cristina Fernandez de Kirchner, all'Uruguay di Tabaré Vazquez, al Paraguay di Fernando Lugo e al Cile di Michelle Bachelet.

Gli istituti di sondaggio, mediamente, prevedono una vittoria del Si con il 57%, anche se il Governo ha diffuso stime che arrivano al 70% dei consensi. La campagna elettorale è stata vibrante e il tema forte usato dai referendari è stato quello della promessa della «lunga notte neoliberale, che ha provocato un drastico aumento della poverta». E progressivamente condurrebbe al ripristino della moneta nazionale, il sucre, che da oltre dieci anni è stata interamente sostituita dal dollaro americano.

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