Sarà una battaglia lunga con esiti imprevedibili e quello di ieri è solo il prologo: otto morti negli scontri tra sostenitori e oppositori del presidente Evo Morales dopo l'esplusione dalla Bolivia dell'ambasciatore americano Philip Goldberg, accusato di «fomentare la divisione della Bolivia », che ha 72 ore per lasciare il Paese. Ed è di ieri la decisione del Governo americano di procedere a propria volta all'espulsione dell'ambasciatore boliviano a Washington Gustavo Guzman. Il gas boliviano, la sua estrazione e il suo utilizzo spaccano il Paese da molto tempo. Dietro questa frattura la richiesta di autonomia di quattro regioni, quelle più ricche: Santa Cruz, Beni, Pando, Tarija. Dai referendum effettuati nei mesi scorsi in ciascuna provincia è emersa la volontà di separazione. Ma nell'ultima votazione nazionale, quella del 10 agosto scorso, Morales ha stravinto con il 67% di consensi.
Era un referendum revocatorio in cui si chiedeva agli elettori un " sì" o un "no" a Evo. E lui, forte della maggioranza indigenista e povera delle regioni dell'altopiano,è stato confermato alla presidenza.
Tuttavia la vittoria netta ha esacerbato l'animo dei separatisti, che di fronte all'idea di un altro referendum, previsto per gennaio e con cui si dovrebbe modificare la Costituzione, hanno abbandonato il tavolo delle trattative. Il gas è l'oggetto del contendere e due sono le visioni contrapposte sul suo utilizzo: da una parte c'è la volontà di assegnare al mercato e alle compagnie straniere l'estrazione e la vendita di questa grande risorsa energetica. Dall'altra l'intento di nazionalizzare tutte le attività e procedere a una redistribuzione interna, favorendo le classi più disagiate.
Il detonatore degli scontri degli ultimi giorni, culminati con l'espulsione dell'ambasciatore americano, è stata la richiesta di restituzione dei proventi di un fondo petrolifero, avanzata dalla province separatiste, che Morales ha invece destinato a un programma sociale per gli anziani.
Negli ultimi due giorni la tensione è salita alle stelle: il Governo di La Paz ha denunciato il «rischio di una guerra civile provocata da parte di gruppi fascisti». E il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Sean McCormak, ha replicato seccamente: «La decisione del presidente boliviano è un grave errore che ha seriamente compromesso le relazioni bilaterali». Il botta e risposta non si è fermato qui. Il ministro per la presidenza boliviana, Juan Ramon Quintana, ha assicurato che la dichiarazione di persona destinata a McCormak «non comporta necessariamente la rottura delle relazioni diplomatiche».
La riforma della Costituzione, avallata da Morales, garantirebbe maggior potere all'etnia indigena, rafforzerebbe le nazionalizzazioni, limiterebbe l'estensione del latifondo e consentirebbe la rielezione presidenziale. Le province separatiste di etnia bianca, guidate da Ruben Costas, prefetto di Santa Cruz de la Sierra, chiedono invece una progressiva autonomia politica, fiscale, amministrativa e di sicurezza. In altre parole una sostanziale secessione del Paese.
Intanto ieri Morales, che ha ricevuto una telefonata di solidarietà e appoggio dal presidente brasiliano Lula da Silva, ha promulgato la legge con cui la Bolivia ratifica la sua adesione all'Unione delle nazioni sudamericane ( Unasur), il cui trattato costitutivo è stato approvato in maggio a Brasilia. Il primo passo per rafforzare la sua posizione a livello regionale.