Se la Presidenza Bush è riuscita a dispiacere a quasi tutto il mondo, non è detto che quella di Obama farà tutti felici. La ragione è semplice: l'America che Bush lascia è lacera e piena di ferite e la grande novità di un Presidente nero è per ciò stesso un toccasana. Il fatto è che — pronta o no che sia la società americana ad accogliere questa straordinaria innovazione — ciò avviene in un momento non facile per l'America, oltre che conseguentemente per tutto il mondo. Infatti, anche se la crisi finanziaria internazionale non può essere addebitata al Presidente uscente così come la soluzione non potrà esser trovata dal solo Presidente entrante, non c'è dubbio che essa suoni come il campanello d'allarme di quello che potrebbe rivelarsi il declino di una grande potenza. Succede.
E allora ecco che sull'agenda di Obama dovrà comparire, fin dalla prima pagina, accanto alla «riconciliazione» nazionale a cui dovrà attendere dato che i bianchi sconfitti non gliene lasceranno scappare una, la progettazione di una nuova immagine dell'America nel mondo. A incominciare dall'Europa, non perché più importante ma perché è l'alleata storicamente più fedele. Europa vuole dire multilateralismo, il contrario di ciò che ha fatto Bush, ovvero concertazione, dialogo, spirito di compromesso, condivisione di partnership invece che imposizione di leadership. Subito dopo dovrà venire una politica di pace e di aiuti allo sviluppo democratico: anche qui, basterà fare l'esatto contrario di quel che è stata l'era Bush. Obama è certo consapevole delle difficoltà che l'attendono, ma ricordi che si trova di fronte a problemi che potrebbero essere epocali: si armi dunque — invece che di arsenali, come ha fatto Bush (700 miliardi di dollari di spesa militare annua, la metà del mondo intero) — di pazienza e di lungimiranza. Gli Usa non hanno nemici, è bene che non se ne facciano ora.
(*) Docente di Relazioni internazionali all'università di Torino