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Samuelson: «Adesso la politica deve tornare al centro»

dal nostro inviato Mario Platero

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CHICAGO - Paul Samuelson non abita più qui. Ma ricorda con nostalgia, quando, 73 anni fa, viveva da studente alla Chicago university. Ha un'immagine chiara degli anni della Depressione, quando «dalle finestre dell'università vedevo un mondo molto diverso da quello che descrivevano i libri di testo, un mondo di povera gente e disperazione». Samuelson, decano degli economisti americani, premio Nobel e autore di testi di importanza storica, ricorda anche i lunghi pomeriggi d'estate passati sulle spiagge del lago Michigan, su cui si affaccia Chicago: «Non perché fossi un fannullone o figlio di ricchi. Ma perché vedevo la delusione sul volto dei miei compagni che sprecavano il tempo a cercare un lavoro per l'estate, senza alcuna possibilità di successo».
È qui, a Chicago, da dove è partita l'avventura di Barack Obama, che Samuelson ha studiato fra i neoclassici e i conservatori, per poi trovare una sua strada più interventista e keynesiana, davanti all'evidenza del disastro che si era consumato in quegli anni: prima con il crollo di Borsa del 1929 e poi con la Depressione. Abbandonò il conservatorismo che dominava la sua scuola di Chicago per cominciare un percorso molto diverso, che lui stesso definisce centrista. I ricordi si affollano, ma su tutto prevalgono due fatti che oggi, a 93 anni, gli danno forza e stupore allo stesso tempo: la catastrofe finanziaria degli ultimi mesi, molto simile per dinamica a quella degli anni Trenta; la candidatura di un afro-americano alla Casa Bianca: «Non mi sarei aspettato di vedere nella mia vita né l'uno né l'altro. Figuriamci tutti e due. A 93 anni c'è ancora qualcosa che riesce a sorprendermi, un privilegio non da poco per uno della mia età».

Cos'altro la sorprende professore?
L'ottusità del genere umano. Questa era una crisi annunciata. Bear Stearns era l'intermediario della Long Term Capital, il primo campanello d'allarme che squillò dieci anni fa per dirci di fare attenzione. Ma fare soldi a breve era più importante della certezza di stabilità a lungo termine. E su un punto non ci sono dubbi: la colpa è nostra. È Wall Street ad aver aperto la strada al disastro su cui si è poi messo il resto del mondo. Sono stati i nostri professori, alcuni miei allievi al Mit, ad aver sviluppato teorie per la distribuzione del rischio, che sarebbero poi risultate fatali per un semplice errore: non hanno tenuto conto dell'insaziabilità del genere umano.

Vale a dire?
Immagini di avere una mazza da baseball, se ci prova, riuscirà a mettere in equilibrio su un dito. Ma se il bastone diventa grande quanto l'Empire State Building, allora sarà impossibile metterlo in equilibrio. Il gigantismo incontrollato è stato il nostro peccato. Ci vorranno regole nuove. Ma attenzione non regole che strangolino il malato.

Se guarda al futuro immediato, cosa la preoccupa?
Che il pendolo dell'ideologia si sposti troppo a sinistra. Mi spaventa l'idea che al Senato potrebbe essere una maggioranza di 60 voti a favore dei democratici, che impedirà l'ostruzionismo. Questo significa che si potranno fare in libertà cose che potrebbero essere altrettanto dannose per il Paese, ad esempio aumentare spese inutili, per accontentare certe basi politiche. Rafforzando i sindacati, che hanno portato non pochi danni al Paese con rigidità distruttive per l'industria dell'auto.

Lei crede comunque che si tornerà indietro a politiche simili al New Deal?
Non si torna mai indietro. Il mondo è diverso. Ci sono nuove sfide. Quelle ambientali, ad esempio, che diventano centrali per lo sviluppo. Il mondo cambia. E dunque il mio consiglio è di guardare avanti, non indietro. Il mio appello è semplice: non si abbandoni il centro. Sono un centrista perché so dalla storia economica quali pericoli possono derivare dai movimenti estremi, sia quelli verso un eccessivo liberismo, come quello che abbiamo testimoniato prima della crisi, sia quelli verso gli estremi della centralizzazione e della rigidità. Mi ascolti: Mao e Marx erano pagliacci, non avevano alcuna idea di come si deve gestire un'economia. Il nuovo Presidente dovrà collocarsi al centro. E guidare l'America lungo nuovi percorsi che ancora non conosciamo.

Parliamo di una sfida concreta: è favorevole a salvare l'industria dell'auto, come sono state salvate le banche?
No. Ma se si dovrà fare un pacchetto di aiuti, prima le aziende dovranno fallire. Si dovrà avere il coraggio di riconoscere che il management ha sbagliato, ma che hanno sbagliato anche i sindacati a rivendicare diritti fuori dai modelli competitivi internazionali.

  CONTINUA ...»

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