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Good morning, bad bank

di Luigi Zingales

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30 gennaio 2009

Siamo daccapo. Dopo che in ottobre il Governo americano ha investito 300 miliardi di dollari nelle banche e ne ha garantito il debito a breve per altri mille miliardi di dollari, le richieste di salvataggio ritornano, con la stessa periodicità dei risultati trimestrali. Il passivo aumenta: il Fondo monetario, che un anno fa aveva annunciato mille miliardi di perdite per il sistema nel suo complesso, oggi parla di due-tremila miliardi. E le banche bussano alle porte del potere politico.

Cambia il partito e cambiano molti dei protagonisti, ma il ritornello non cambia. Bisogna salvare il sistema bancario e per salvarlo sono necessari soldi: tanti, tanti soldi. Il Wall Street Journal scrive duemila miliardi di dollari. I 300 miliardi rimasti del piano Tarp (Troubled asset relief program) servirebbero solo come capitale iniziale per un mega hedge fund che prenderebbe a prestito la bellezza di due o tremila miliardi di dollari (garantiti dai contribuenti) per sollevare le banche dal peso dei titoli tossici. A che prezzo? Se il Governo dovesse pagare il prezzo di mercato di questi titoli, tutte le banche dovrebbero riconoscere questo valore nel loro bilancio, portando al fallimento immediato l'intero sistema creditizio. Quindi l'unica soluzione praticabile è quella di strapagare questi titoli a spese del contribuente. Questa volta la chiamano "bad bank" o "aggregator bank", ma altro non è che il Tarp prima maniera ideato dall'ex segretario al Tesoro Henry Paulson: un modo per scaricare sul contribuente le perdite delle banche.

Perché un Governo che doveva portare al cambiamento più radicale sembra ripetere gli errori fatali dell'esecrata amministrazione Bush? Perché cambia il Governo ma non cambia la pressione lobbistica, con buona grazia delle nuove regole introdotte da Barack Obama.
Sia il nuovo ministro del Tesoro Tim Geithner che il consulente economico di Obama Larry Summers sono protegés di Robert Rubin, ex ministro del Tesoro di Bill Clinton ed ex capo di Goldman Sachs, e fino all'altro giorno consigliere di amministrazione "speciale" di Citigroup. Colui che è stato pagato 140 milioni di dollari in 10 anni per aver portato Citigroup al fallimento. Da Goldman vengono anche il sottosegretario di Geithner e il nuovo capo della Fed di New York, William Dudley.

Charles Erwin Wilson, che fu ministro della Difesa nell'amministrazione Eisenhower dopo una lunga carriera a General Motors, dichiarò che l'interesse di Gm coincideva con l'interesse del Paese. Come possiamo pensare che persone che hanno passato vent'anni in Goldman non percepiscano la stessa coincidenza di interessi?

Ed è vero che l'interesse degli Usa (e del mondo intero) è che il sistema bancario ritorni ad essere ben capitalizzato e in grado di fare prestiti all'economia. Dove l'interesse diverge è su come raggiungere questo obiettivo. I banchieri vogliono essere indennizzati degli errori passati a spese dei contribuenti. Come spiegare i 4 miliardi pagati in bonus ai dipendenti da Merrill Lynch dopo che il Governo aveva dovuto immettere 10 miliardi per salvarla? La giustificazione spesso addotta è che non esistono alternative. Ma è falso. Nello scorso autunno avevo presentato una chiara alternativa (Il Sole 24 Ore del 15 ottobre) in cui le banche venivano ricapitalizzate senza alcun costo per i contribuenti. Qualche giorno fa (Il Sole 24 Ore del 21 gennaio) ho proposto una seconda alternativa, in cui ogni banca si scinde in due: i titoli tossici da una parte, il resto delle attività dall'altra. Entrambe queste opzioni risolvono il problema della sottocapitalizzazione delle banche e lo fanno allocando le perdite agli investitori e non ai contribuenti.

Non indennizzare le perdite a spese dei contribuenti non è solo un problema fiscale (il costo è astronomico) o di giustizia sociale (si tratta di una redistribuzione dai più poveri ai più ricchi), ma soprattutto di efficienza economica. Quando si spezza il principio di responsabilità (chi si assume il rischio riceve i guadagni ma anche assorbe le perdite), l'economia di mercato perde la sua ragion d'essere.

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